Pubblichiamo due testi tratti da “Nunatak. Rivista di storie, culture e lotte della montagna”. Una riflessione tra urbanistica, “emergenze ambientali” e militarizzazione della società; uno sguardo sulla trasformazione militar-affaristica della Protezione civile all’epoca del Capo Bertolaso. Alcuni spunti per capire che la logica di guerra non è in un lontano Altrove, ma qui. Ed è la stessa logica del profitto.
QUALCHE PUNTO FERMO, TRA EMERGENZE E CROLLI
Pepi
La Natura – così come la Storia – procede a “sbalzi”. Tuttavia, “l’uomo non è più essenzialmente nell’ambiente ‘naturale’ (costituito da ciò che viene comunemente chiamato ‘natura’, campagna, boschi, montagne, mare, ecc.), ma si situa ormai in un nuovo ambiente artificiale. Non vive più a contatto con le realtà della terra e dell’acqua, ma con quella degli strumenti e degli oggetti che formano la totalità del suo ambiente, ormai costituito da asfalto, ferro, cemento, vetro, plastica” (Jacques Ellul, Il sistema tecnico). Questa artificializzazione compiuta della vita sociale, unita all’infinita fiducia nella tecnologia e nel “progresso”, ha contribuito all’affermarsi di un immaginario illusorio, che ci fa credere di vivere come sospesi in una bolla, in una organizzazione sociale salda e immutabile, al riparo dai “capricci” della Natura (così come da quelli della Storia). I fenomeni “catastrofici” quali terremoti, inondazioni, uragani, o anche solo abbondanti piogge o nevicate, periodicamente ci strappano da questo sogno (o incubo) di un sistema tecnologico onnipotente e onnipresente, rivelandone l’intrinseca e strutturale fragilità.
Cile, Haiti, L’Aquila, New Orleans… gli scossoni della natura irrompono con prepotenza nella
normalità dell’eterno presente capitalista, squarciando quella coltre di sicurezza in cui l’uomo si illudeva di poter vivere, e mostrando, nella situazione di emergenza che si viene a creare, i tratti veri e profondi dell’epoca attuale.
Nella città di Concepción, in Cile, a pochi giorni dal sisma, lo Stato impone il coprifuoco, per 18 ore su 24, a una popolazione che non ha più una casa. Il contrasto dei saccheggi non è che un pretesto (anche perché quando è entrato in vigore il coprifuoco era ormai rimasto ben poco da saccheggiare), il provvedimento non è nient’altro che una giustificazione ex ante di fucilazioni sommarie, un dare mano libera alla soldataglia garantendole il diritto di abbattere impunemente chiunque circoli sulla strada, cioè, appunto, chiunque (dove altro dovrebbe stare chi non ha più una casa, se non per strada? E cosa dovrebbe fare chi non ha più cibo o farmaci e intorno a sé solo chilometri di cemento? Morire sbavando davanti alle vetrine piene?). È la trasformazione dei cittadini in una “popolazione bandita”, “clandestina”, su cui si può sparare soltanto perché esiste: mangia, beve, cammina… senza aspettare che sia lo Stato a concederglielo. I primi ad arrivare sui luoghi dei disastri sono infatti sempre i soldati, insieme alla legge marziale e alla sospensione dei “diritti democratici”, dimostrando qual è la vera emergenza per lo Stato: non di certo la sopravvivenza della popolazione, ma impedire che questa faccia da sé, con il rischio che possa prenderci gusto.
A New Orleans, dopo il passaggio dell’uragano Katrina, di fronte a una popolazione allo stremo che aveva incominciato ad autorganizzarsi, sono stati dispiegati trecento soldati della Guardia Nazionale, appena rientrati dall’Iraq. “Hanno una notevole esperienza di combattimenti. Ristabiliranno l’ordine nelle strade. Sono dotati di M-16 pronti al fuoco. Queste truppe sanno come sparare e uccidere, e sono più che mai pronte a farlo” (Kathleen Blanco, governatrice
della Louisiana).
All’Aquila, se non si è arrivati alla legge marziale e alle fucilazioni sulla strada è soltanto perché
la situazione sociale non è degenerata fino al punto da richiederlo, ma le dinamiche non sembrano molto diverse. Nei campi di concentramento per le migliaia di sfollati è proibito riunirsi, spostarsi “senza motivo” da un campo all’altro, è vietato cucinare, nessuno può farsi da mangiare da sé, “sono riusciti a ottenere solo ieri che quelli della protezione civile non potessero piombargli nelle tende all’improvviso, anche nel cuore della notte, per controllare. (…) Vietato internet nelle tendopoli. Vietato distribuire volantini nei campi. (…) La città è completamente militarizzata (…), tutte le zone e i boschi sopra la città sono gremiti di militari. (…) Per entrare nelle tendopoli bisogna subire una serie di perquisizioni umilianti, un terzo grado sconcertante…” (Andrea Gattinoni, Ho visto l’Aquila, abruzzo.indymedia.org, anche citato nell’editoriale del num. 15 di “Nunatak”). E quando la gente, dopo mesi passati nei campi nonostante le roboanti promesse, ha voluto raggiungere il centro storico (chiamato, significativamente, “zona rossa”) soltanto per togliere le macerie delle proprie case crollate, si è trovata davanti i plotoni di celere antisommossa arrivata dalla capitale! È l’urbanistica stessa, del resto, ad essere fin dalla sua nascita la concretizzazione – sulla strada – dell’offensiva di classe portata contro il rischio delle insurrezioni e dell’autogestione proletaria. Le città hanno smesso da tempo di appartenere ai loro cittadini, e così deve continuare ad essere, ad ogni costo. Nella gestione dell’emergenza, infatti, prendono forme più crude e immediate tendenze che sono in realtà già in atto nella normale amministrazione della società. Se da un lato queste situazioni eccezionali diventano pretesti per sperimentare su larga scala metodi concentrazionari di gestione di territori e popoli, ciò avviene perché l’emergenza è già diventata il modo normale di amministrare il presente. “Il campo è lo spazio che si apre quando lo stato di eccezione comincia a diventare a regola” (Giorgio Agamben, Mezzi senza fini). Nella gestione dei soccorsi per intere città, regioni o popoli, si realizza l’esperimento, in scala reale, di un campo di concentramento grande come un popolo, che è il sogno inconfessabile della società moderna, l’utopia del controllo totale. Ma questo è possibile solo perché noi siamo già, tendenzialmente, organizzati così.
È in questo contesto, in una società in cui le emergenze perdono il loro carattere di eccezionalità diventando metodo di governo, che la “Protezione civile” assume tutta questa rilevanza e questo potere, proprio in quanto ente preposto (come anche la Croce Rossa, certe organizzazioni umanitarie, cooperative e corpi di polizia privati) alla gestione dell’allarme divenuto permanente, in una realtà sempre in bilico tra “civile” e “militare”, tra stato di guerra e stato di pace. Non perché ci sono sempre più emergenze, ma perché qualsiasi situazione viene trattata come tale (da un summit all’installazione di una discarica, dalla costruzione di un inceneritore a un evento sportivo…). Se, un tempo, terremoti o diluvi divenivano occasioni di sospensione della quotidianità in cui si sperimentavano inedite forme di comunanza e di solidarietà, oggi sembra che sia proprio per scongiurare tali possibilità che si dispiegano i potenti mezzi della protezione civile e dell’esercito, a garanzia del fatto che nulla di altro possa essere intravisto o vissuto, anche solo per un attimo. Il proliferare nelle città di campi e luoghi di concentramento, controllo e reclusione per ogni sorta di uomini e donne in surplus, il dilagare di militari, soldati e tecnologie di controllo per le strade, costituiscono solo l’aspetto più crudo e più lampante di questa gestione emergenziale del territorio, perché essa è già presente in ogni meccanismo “normale” del suo funzionamento. Ad esempio nel metodo di approvvigionamento di cibo per i milioni di esseri umani stipati nelle metropoli, che non ha più nulla di “naturale”, ma risponde agli stessi criteri gestionali di un allevamento di polli in batteria, o del vettovagliamento delle truppe al fronte. Nonostante si continuino a chiamare queste calamità “naturali”, esse di “naturale” hanno ben poco, essendo la loro pericolosità una conseguenza del nostro modo di vivere: è abbastanza evidente che i terremoti, ad esempio, rappresentino una minaccia per il fatto che viviamo ammassati in agglomerati urbani, in condomini di cemento, totalmente dipendenti dai flussi di merci, dai sistemi di trasporto ecc., mentre non lo sarebbero per società diversamente organizzate. Le distruzioni portate da tali fenomeni, dimostrando la fragilità della nostra struttura sociale, dovrebbero farci riflettere sulle sciagure di cui questa è portatrice, sui possibili che racchiude e sulla vera emergenza storica che ci troviamo davanti: quella di come liberarcene.
Al contrario, e in un certo senso proprio per impedire ciò, l’attuale gestione delle “emergenze” riproduce quegli stessi metodi e criteri che sono alla base dei disastri, preparando il terreno alle prossime, inevitabili, catastrofi.
(tratto dal numero 16 di “Nunatak. Rivista di storie, culture, lotte della montagna”)
TUTTI SOTTO PROTEZIONE
“Dottor Bertolaso posso chiederle una cosa? Volevo chiederle il registro di
emungimento del percolato, perché lì c’è un lago di percolato e se questa
è una discarica fatta a norma se ci sono le misure di sicurezza.
Posso sapere anche il piano cave del commissariato da qui a 5 anni?
Dottor Bertolaso…dottor Bertolaso… ma dove va?…”.
Chi ha visto “Biutiful Cauntri”, il bel documentario sul sistema rifiuti in Campania, probabilmente ricorda questa scena e ricorderà pure che Bertolaso non rispose.
A Guido Bertolaso, capo del Dipartimento della Protezione Civile, nonché sottosegretario del Presidente del Consiglio, è permesso non rispondere. Mai. In compenso davanti alle telecamere è abilissimo a parlare, sa come costruire la sua immagine mediatica; ama dire spesso che sta per dimettersi per andare in Africa a fare il volontario, ma poi non se ne va mai.
Bertolaso ha un ego smisurato e un’arroganza proporzionata, così a volte si cala un po’ troppo nel personaggio. Come ad Haiti, dove è sbarcato forte di avere un cognome con la B, un po’ seccato perché ancora non fosse quello giusto, e con in testa la voglia matta di riportare l’Ordine nel caos. Quello che ha rimediato è stato un cazziatone dalla Clinton e una sbugiardata dal suo sorridentissimo capo. Queste però sono quisquilie.
Facciamo un passo indietro per capire la genesi e lo sviluppo della Protezione Civile in Italia e del suo vicerè. Prima di Bertolaso la Protezione Civile era stata pensata come uno strumento di previsione, prevenzione e coordinamento nella gestione delle calamità naturali. Le sue strutture erano state riunificate in un unico organismo con i vigili del Fuoco e il Servizio Sismico Nazionale e inoltre collaborava strettamente con gli enti locali e le associazioni di volontariato. Nel 2001 però, Berlusconi, appena insediato a Palazzo Chigi, cambia le carte in tavola e costruisce un apparato verticale, un Dipartimento della Presidenza del Consiglio, quindi ai suoi diretti ordini. Sa che l’intervento sulle calamità paga bene a livello mediatico, da buon imprenditore sa anche che sul dolore si guadagna bene, che le ricostruzioni, come le guerre, sono sempre un buon affare. Cerca l’uomo giusto per costruirgli intorno l’aura del superpersonaggio e lo trova in Bertolaso, appena uscito dalla collaborazione con Rutelli, allora sindaco di Roma. Bertolaso ottiene subito poteri molto ampi, soprattutto ha il potere di emettere ordinanze come se piovesse. E non solo in caso di emergenze e calamità, ma anche in caso di “grandi eventi”. Fino ad oggi nella sua carriera si contano ben 587 “ordinanze emergenziali”.
A quest’organismo quindi si concede la possibilità di derogare alle norme ordinarie, non solo per quel già collaudato escamotage che è la dichiarazione di “stato di emergenza”, ma in maniera molto più ampia su una miriade di situazioni che il governo trasforma in eventi rilevanti.
Ma cosa sono dunque questi grandi eventi che la Protezione Civile deve preparare e agevolare a suon di milioni di euro, di appalti senza gara, di stanziamenti senza alcuna possibilità di controllo, di assunzioni clientelari e supersfruttamento della manodopera precaria? Forse parliamo di grosse manifestazioni dei lavoratori o degli studenti che portano in piazza milioni di persone? Neanche per sogno, quella è robetta. I grandi eventi e le Emergenze del paese sono altre come la pre-regata della Vuitton Cup a Trapani (appalti e cemento per 62 milioni di euro e inevitabile “infiltrazione” mafiosa); la sistemazione delle aree archeologiche di Roma e Ostia Antica (21 milioni di euro per realizzare una passerella per disabili, un montacarichi e una cancellata nuova per il Colosseo); l’ostensione delle reliquie di San Giuseppe da Cupertino (ennesima ordinanza con concessione dei poteri straordinari al sindaco in deroga ad otto leggi vigenti); il pellegrinaggio a Loreto, denominato Agorà dei giovani italiani (2 milioni di euro e deroga a 37 articoli del codice degli appalti pubblici); il Congresso Eucaristico nazionale previsto ad Ancona nel 2011 per cui Bertolaso (ma non doveva andare in Africa?) è già stato nominato commissario straordinario. Manco a dirlo sono grandi eventi tutti i viaggi del Papa con conseguenti stanziamenti di fondi. Per i mondiali di ciclismo di Varese del 2008 con l’ordinanza 3565 Bertolaso ha fatto costruire una bella tangenziale alla modica cifra di 7 milioni di euro. Anche per costruire la Pedemontana tra Vicenza e Treviso si è preferito usare Bertolaso. È bastato dichiarare lo stato di emergenza traffico per imporre il cemento e appaltare senza alcuna gara alla Veneto strade Spa. Vogliamo parlare dei mondiali di nuoto di Roma del 2009 con indagini per abuso edilizio su tutti gli impianti fantasma costruiti? O dell’allestimento del G8 alla Maddalena, una foresta di appalti per 300 milioni di euro e il segreto di Stato apposto per coprire sfruttamento della manodopera, assenza totale di sicurezza sul lavoro, lavoro nero? Poi c’è il caso di Catania, dove a comandare era Scapagnini, incidentalmente anche il medico privato di Berlusconi, a cui è stato fatto dono di una bella ordinanza della Protezione Civile per un totale di 115 milioni di euro per ribaltare la città e adornarla di parcheggi, centri commerciali e stradoni.
La Protezione Civile diviene il centro di smistamento di appalti e d’assegnazione clientelare di grosse speculazioni che devastano il territorio. Neppure la Corte dei conti è titolata a metterci il becco. Ovviamente le funzioni che almeno prima c’erano sulla carta, di previsione e prevenzione sul territorio vengono dismesse. Il Servizio Sismico viene addirittura cancellato, Bertolaso preferisce circondarsi di uomini fidati scelti tra militari, ex dei servizi segreti, uomini di partito di tutti gli schieramenti.
E quando arrivano le emergenze vere, i risultati si vedono: L’Aquila si accartoccia e viene lasciata morire e il territorio sfregiato di newtown, Giampilieri sprofonda, a Napoli, nella furia di apparire efficienti, i rifiuti si seppelliscono o si bruciano a casaccio in inceneritori circondati dall’esercito. Il caso di Acerra ci fa capire anche un’altra cosa. Qui sono stati nominati commissari straordinari all’Emergenza Rifiuti Bertolaso e successivamente l’ex capo della polizia De Gennaro. Per smaltire tutto l’ammasso di rifiuti non si è andati tanto per il sottile, trasformando la zona tra Napoli e Caserta in un immenso rogo dove la diossina la faceva da padrona. L’inceneritore di Acerra, ancor prima di aver passato il collaudo, aveva già superato i limiti di emissione di ottanta volte. Si è bruciato rifiuti un po’ dovunque come dei forsennati, ma non solo. Montagne di rifiuti inquinanti sono state seppellite abusivamente e coperte da uno strato di rifiuti “puliti” o da sostanze atte a camuffare l’odore e le emissioni dei primi.
Ma la gente sente la puzza, vede il percolato, vede il traffico di camion carichi di veleni che Ministero dell’Ambiente e Protezione Civile vorrebbero sotterrarle dietro casa, e allora s’incazza e dovunque sorgono comitati e blocchi del traffico.
Il trucco dell’emergenza funziona sempre, basta dichiarane una nuova per concentrare nelle mani di Bertolaso nuove funzioni repressive e di militarizzazione del territorio. Il commissario è messo a capo delle forze di polizia e dell’esercito e può dichiarare una sorte di legge marziale per cui protestare o opporsi a quello scempio diventano reati gravi puniti con anni di galera.
L’abbandono di rifiuti, dovunque reato civile, a Napoli diventa penale, inoltre il commissario ha potere anche di precettare i lavoratori a qualsiasi titolo. Infine con un colpo di penna si cancella il principio per cui nessuno può scegliersi il giudice che preferisce e s’impone che a decidere sui reati in materia ambientale in Campania sia solo la Procura di Napoli. Guarda caso la detta Procura stralcia subito la posizione di Bertolaso dall’inchiesta “Ecoballe”.
Non c’è da dubitare neppure un momento che questa formula, l’intreccio tra scappatoia emergenziale, spartizioni affaristiche e mano militare, sarà impiegata per imporre al paese il ritorno al nucleare o per superare l‘ostilità di intere valli contro treni ad alta velocità, rigassificatori e inceneritori.
Peggio di così non potrebbe andare dunque?
Via non siamo così ottimisti, infatti, è già in fase avanzata una nuova ristrutturazione della Protezione Civile che la trasformerà in una Società per Azioni, in cui l’unico azionista sarà il presidente del consiglio.
La Protezione Civile SpA diventerà in pratica una centrale di smistamento appalti, che esternalizzerà tutte le attività pratiche d’intervento, con i bilanci più secretati dei servizi secreti, con un controllo gestionale su tutto il territorio, con una mobilità interna dei dipendenti a discrezione del Padrone, lo stesso Padrone, quello con la B giusta, che disporrà personalmente di un fiume di quattrini indescrivibile.
Sì, forse la concentrazione di soldi, potere e controllo sociale sta diventando totalitaria, ma vuoi mettere che congressi eucaristici?
MARCO
Per approfondimenti, consigliamo la lettura di M. Bonaccorsi, Potere assoluto. La protezione civile al tempo di Bertolaso, Ed. Alegre, Roma 2009.
(tratto dal numero 16 di “Nunatak. Rivista di storie, culture, lotte della montagna”)