Sabotare la guerra dalla base

La lotta contro la base militare di Mattarello (Trento)

(contributo per l’incontro internazionale antimilitarista del 24-25-26 settembre 2010 a Barcellona)

Abbiamo già illustrato il progetto della base militare di Mattarello e il contesto in cui si inserisce nel nostro appello (tradotto anche in castigliano) Impediamo la costruzione della base militare di Mattarello. Agli anarchici, ai libertari, agli antimilitaristi del febbraio 2009. Con l’intervento di oggi vogliamo sviluppare alcune considerazioni più generali e allo stesso tempo raccontare a grandi linee l’attività che abbiamo svolto nel frattempo e ciò che ci proponiamo per il prossimo periodo.

Vista l’importante occasione di questo incontro internazionale, ci sembra utile confrontarci soprattutto sui metodi di lotta, su come ridare all’antimilitarismo tutta la sua carica sovversiva. Per agevolare la discussione procederemo per punti. Queste nostre note vanno lette come una semplice scaletta di problemi.

La guerra: il cuore di un mondo senza cuore

Nonostante le menzogne dominanti sempre più patetiche e sempre meno convinte e convincenti per mascherarlo, e nonostante “l’inerzia della catastrofe” che contraddistingue la maggior parte dei nostri contemporanei, un dato salta agli occhi: siamo in guerra. Se non partiamo da questa evidenza non riusciamo a capire tanti fenomeni che caratterizzano il presente periodo storico. Dal rilancio del nucleare alla produzione ormai permanente di “emergenze”, dalle trasformazioni nel mondo del lavoro ai dispositivi di repressione e di segregazione dei migranti, dalla “riqualificazione” di quartieri e città all’entrata del capitale nei processi vitali stessi della specie (pensiamo alle bio- e alle nano-tecnologie), le accelerazioni che il dominio ha effettuato negli ultimi vent’anni hanno il suono sinistro dell’ultimatum. Questo processo ha coinciso, non a caso, con l’assuefazione alla guerra, alla sua normalità. Basta confrontare le mobilitazioni contro la prima guerra del Golfo (1991) con l’attuale silenzio assordante di fronte ai genocidi della democrazia per misurare il terreno guadagnato dal nemico. Dagli scioperi, dai blocchi dei treni, dai sabotaggi di allora si è passati alle bandiere arcobaleno appese ai balconi degli anni scorsi per arrivare al confortevole nulla di oggi.

Più che a una convinta adesione alla retorica dell’interventismo democratico e “umanitario”, siamo forse di fronte ad una terribile privatizzazione della vita e degli spazi sociali.

Il complesso industriale-militare è in continua espansione (quantitativa e qualitativa), con ricadute economiche e sociali sempre più pesanti. Il vecchio assunto del bellicismo trova ampia conferma: la conquista più preziosa delle politiche di guerra è la pace sociale. Impegnata a costruire nuovi pezzi dell’infinita muraglia cinese contro il Nemico e lo Straniero, la classe pericolosa dei poveri e degli sfruttati è isolata, passiva, rancorosa, nazionalizzata, anche senza bisogno di bandiere e di inni patriottici.

La fecondità dell’imprevisto

Eppure i governanti sanno che il terreno sotto i loro piedi potrebbe franare. La società che amministrano è certo una gigantesca accumulazione di ghetti, ma allo stesso tempo, di fronte alla minima esplosione sociale, gli spazi della mediazione politica e sindacale sono sempre più ristretti. Se poi si osserva come funziona la democrazia a livello planetario, si noterà che gli effetti ecologici e sociali della produzione di disastri a mezzo di disastri hanno creato una massa di esclusi che preme minacciosa contro le dighe dell’ordine costituito.

Questo è il motivo per cui le caste politiche e tecnoburocratiche stanno riempiendo le strade di soldati. Ogni “emergenza” (un terremoto, un uragano, le proteste contro la costruzione di un inceneritore o di una piattaforma petrolifera) è buona per assuefare, in qualsiasi parte del mondo, la popolazione alla gestione militare del territorio; per notificarle che il confine che separa il cosiddetto cittadino dallo sfollato di guerra è labile, incerto, revocabile.

È  in questo processo di militarizzazione della società che va inserito il programma di rilancio del nucleare di diversi Stati. Una società nuclearizzata è non solo una società sottoposta a un apparato tecnologico incontrollabile, ma anche affidata, in caso di “emergenze” sempre rinnovabili, ai militari. Senza contare quel dettaglio che è la fabbricazione di armamenti atomici. Va da sé che, in tutto ciò, la produzione di energia “a più bassi costi” è uno sfacciato pretesto.

A differenza dei rivoluzionari, il dominio sa che il suo reame è assai fragile – e corre ai ripari.

La “democrazia del popolo dei signori”

Un avamposto di questa tendenza mondiale è rappresentato senz’altro dallo Stato di Israele.

L’esempio israeliano dimostra che militarizzazione della società, guerra permanente, politiche coloniali e pratiche di apartheid sono perfettamente compatibili con la democrazia rappresentativa. L’attribuzione di poteri sempre più ampi all’esecutivo, all’esercito e alle forze di polizia, il decreto d’urgenza come forma consueta del governare possono rendere obsoleto il ricorso alla dittatura. La retorica della “libera cittadinanza” è un collante per far vivere la popolazione in una sorta di mobilitazione totale e di assedio permanente giustificati dalla presenza di un Nemico dai contorni fumosi e manipolabili a piacimento. Lager, frontiere mobili, immense carceri a cielo aperto per i proletari palestinesi, soldati ventenni che non conoscono altra lingua umana se non quella degli ordini urlati, caratteri brutali del colono che si diffondono in tutta la società e nella vita quotidiana sono le condizioni di questa “democrazia del popolo dei signori”. Chiunque dissenta è una sorta di quinta colonna del Nemico (nella cui figura si confondono l’islamista militante e il ragazzino che lancia le pietre contro i carri armati, il coltivatore di olive vicino alla frontiera e la donna che vuole passare i check-point per andare a raccogliere l’acqua).

Immagini e parole fuori campo: sorridenti conduttori di trasmissioni televisive si chiedono se non sia il caso di farla finita con il “terrorismo” attraverso l’uso dell’atomica. E questo in un paese dove la presenza di reattori nucleari che non producono certo energia elettriche rende particolarmente menzognere e sinistre le rassicurazioni ufficiali sul carattere civile del programma atomico.

Da un lato l’aria fresca dei giardini e i soldati all’entrata dei cinema, dall’altra la fame, la sete, la calca, le bombe. I signori e gli schiavi, i cittadini e i Barbari: la democrazia che viene.

Un confine che non c’è

Già durante i bombardamenti statunitensi in Vietnam, uno studente di Berkeley si chiedeva: “Sapete nominarmi una sola attività che questa società non trasformi in guerra?”. Nel frattempo l’intreccio tra la ricerca tecnologica civile e quella bellica è diventato ancora più inquietante: pensiamo alla sorveglianza elettronica, all’industria aerospaziale, al nucleare, alle tecnologie atomiche e subatomiche.

Questa crescente indistinzione tra civile e militare ha le sue conseguenze politiche e sociali. Ad essa corrisponde il venir meno dei chiari confini tra “guerra” e “pace”, tra “fronte esterno” e “fronte interno”, tra “nemico interno” e “nemico esterno”.

Facciamo due esempi tratti dal contesto italiano.

Finmeccanica, il più grosso produttore italiano di armi (il settimo a livello mondiale), oltre che nella fabbricazione di armamenti (anche atomici), è implicato nel nucleare, nel controllo dei migranti (suo è il progetto di un muro elettronico nel deserto libico per impedire che i dannati della Terra raggiungano il “paradiso europeo”, suoi sono gli strumenti di sorveglianza usati dalla polizia nordamericana al confine con il Messico) e del territorio urbano (attraverso la costruzione e la fornitura di armi leggere, telecamere o cittadelle telematiche per le forze dell’ordine).

Nel penultimo “pacchetto sicurezza” (Pisanu, 2007), in uno stesso elenco di “indumenti” da proibire con un aumento di pene figuravano: il burqa, lo chador e il… casco integrale indossato dai manifestanti. Insomma, si può essere palestinesi ovunque: a Milano, a Barcellona o a Gerusalemme.

Vedere le conseguenze

“L’umanità che ha esaurito la sua fantasia nelle invenzioni non può più immaginarsi i loro effetti – altrimenti si suiciderebbe per il pentimento! Ma poiché ha esaurito nelle invenzioni anche la sua dignità umana, vive e muore per tutte le potenze che si servono di tale progresso contro di lei”. Così scriveva Karl Kraus nel lontano 1918, anticipando di quarant’anni la riflessione di Günther Anders sullo “scarto prometeico” tra la nostra capacità di produrre e la nostra facoltà di rappresentarci (e assumerci) le conseguenze del nostro stesso produrre. In fondo la questione decisiva è proprio questa.

Analizzare la guerra, cogliere gli intrecci tra la produzione civile e quella bellica, dare “nome, cognome e indirizzo” all’ingiustizia, sabotare i dispositivi della distruzione di massa, attaccare i piccoli e grandi Eichmann di una catastrofe continua, impedire la costruzione di una base militare sono esercizi di fantasia morale – la facoltà di immaginare le conseguenze di ciò che facciamo (o non facciamo) e di assumerne eticamente il peso.

I volantini, i libri, le azioni dirette, i blocchi, le assemblee di lotta che proponiamo hanno lo scopo di aprire spazi di esperienza autonoma, cioè di sottrarre terreno all’irresponsabilità generalizzata, alla separazione in dirigenti ed esecutori, allo scarto tra la pratica e il discorso, tra l’attività e i suoi effetti.

Nella società capitalista non sappiamo cosa facciamo, ecco il punto: la nostra attività sociale è una potenza che ci sfugge. La guerra è la massima espressione di questo spossessamento generale, le cui conseguenze diventano sempre più irreversibili.

Per questo, se approfondiamo lo sguardo sul Moloch dell’attuale produzione non è per andare a dormire con le idee più chiare, e nemmeno per crogiolarci nell’impotenza o nel dubbio (“se tutto è guerra, nulla lo è”), bensì per trovare dei terreni concreti di intervento e di attacco.

Tornando a Mattarello

Abbiamo definito la lotta contro la costruzione di una base militare un’occasione.

Cercheremo ora di riassumere in alcuni punti i ragionamenti e i metodi che stiamo cercando di articolare in questa lotta.

– Non esiste l’“idea” guerra senza la “cosa” guerra. Non si può dirsi contro la guerra senza opporsi a ciò che la rende possibile. Provare ad impedire la costruzione della base di Mattarello è il nostro modo per contribuire a rilanciare un movimento contro la guerra e il suo mondo.

– La guerra non è un evento lontano che non ci tocca direttamente. Non solo essa viene “prodotta” qui, ma le sue conseguenze interne sono evidenti quanto pesanti: controllo militare del territorio, presenza di soldati che potrebbero essere utilizzati anche per imporre altre nocività (TAV, inceneritore ecc.), impatto ambientale, costi economici, riduzione degli spazi di dissenso ecc.

– La base militare non è solo l’area circoscritta dei cantieri, ma tutto ciò che vi ruota attorno: i politici che la vogliono, l’ipocrisia istituzionale e mediatica che la giustifica o la maschera, le imprese che la costruiscono, le banche che la finanziano, la normalità sociale che la accetta.

– La base non si impedisce con le raccolte di firme, con le negoziazioni o con le pratiche di dissenso simbolico e spettacolare, ma con l’azione diretta, con l’intervento insurrezionale, per quanto circoscritto nel tempo e nello spazio. Le caratteristiche di tale intervento sono per noi l’autonomia da partiti e sindacati, la conflittualità permanente, l’attacco.

– I tempi e le modalità della lotta sono suggeriti dal contesto in cui si interviene, per cui è necessario creare “ponti” tra l’attività dei compagni e la realtà sociale. La presenza sul territorio e la proposta di occasioni assembleari sono l’intelaiatura organizzativa della lotta, nonché gli spazi di autoeducazione al conflitto e alla libertà che fanno risaltare il senso e i contenuti di una battaglia specifica.

– Ciò che proponiamo non è un’agitazione generica contro la guerra e nemmeno la costruzione di strutture di base che si facciano carico, sull’esempio dei sindacati o delle organizzazioni politiche, di un ampio spettro di problemi. Partiamo da un “NO” preciso e specifico, rispetto al quale valutare i nostri risultati. Finita la lotta, si sciolgono anche le strutture di base nate con essa, al fine di evitarne il recupero politico e burocratico.

– Di fronte all’insufficienza delle strutture di base che si creano (per la scarsa partecipazione della popolazione, per la presenza di elementi politici, per gli errori nostri di impostazione), spetta ai compagni farsi carico di un intervento di stimolazione diretta della popolazione. Forse chi è stato alla finestra finora potrebbe decidere di partecipare di fronte a una presenza seria di una minoranza combattiva e conseguente. Gli effetti di una base non riguardano solo gli abitanti della zona in cui viene costruita. L’azione autonoma antimilitarista è dunque sempre possibile e legittima.

– Quello della base militare di Mattarello non è un problema locale. Per questo, dopo aver mosso i primi passi per capire la situazione, abbiamo coinvolto i compagni interessati a livello nazionale. Non solo per ricevere man forte in alcuni momenti, ma anche per pensare insiemi tempi e modi e per trovare i collegamenti concreti tra la base militare e la realtà in cui intervengono altri compagni e compagne.

– Il convegno antimilitarista del 2 maggio 2009 a Trento e il successivo campeggio di giugno sono state due significative occasione per approfondire l’analisi del militarismo e sperimentare alcune forme di azione collettiva (interruzione dell’attività di alcune banche, blocchi anonimi della circolazione ferroviaria, interventi in città, contestazione di manifestazioni per la pace organizzate da chi finanzia la base, piccoli attacchi contro l’istituzione della Provincia di Trento).

– Con i lavori dei cantieri avviati, e dopo le prime azioni di blocco, di pressione sulle ditte e un anonimo sabotaggio nel cantiere, la situazione sta ora entrando nel vivo. L’intervento contro la base e ciò che la rende possibile deve operare un salto qualitativo di impegno e di concretezza. Il nostro scopo è esplicito: impedire, se possibile con un’azione di massa, la costruzione di questa base di morte.

– Alla questione della base se ne intreccia ora un’altra: la costruzione di un centro di ricerca di Finmeccanica a Rovereto (a una ventina di chilometri da Mattarello). Essendo Finmeccanica un colosso presente ovunque in Italia, e avendo le maggiori responsabilità nella guerra (nonché nel nucleare, nella repressione dei migranti e nel controllo poliziesco), si pone la questione di collegare la nostra lotta ad altre presenti altrove.

– Visti i rapporti di collaborazione tra Finmeccanica e le università (in Trentino come nel resto d’Italia e non solo), altro intervento sarà quello di scuotere la normalità accademica, trovando magari qualche intreccio con le contestazioni studentesche. Nelle università si produce la guerra: questo concetto semplice potrebbe portare un po’ di concretezza critica alle (per lo più) asfittiche rivendicazioni corporative degli studenti universitari.

– L’opposizione alla guerra e alla militarizzazione della società deve raggiungere una dimensione internazionale e internazionalista per fermare i piani assassini della democrazia, unico modo per dare alle solidarietà con i dannati della Terra il suo senso rivoluzionario.

Nella sua scheletrica schematicità, questo è ciò che cerchiamo di fare nel nostro piccolo.

I maggiori limiti riscontrati finora sono stati nella scarsa partecipazione di una parte anche piccola ma significativa della popolazione e nella nostra ridotta capacità di porre dei punti di riferimento (assembleari o anche più informali) sul territorio, di dare continuità al nostro intervento nei periodi in cui il progetto della base sembrava sostanzialmente fermo (ragione per cui non siamo riusciti, ad esempio, a rilanciare con forza l’iniziativa dopo la bella esperienza del campeggio antimilitarista). La successiva occupazione di uno stabile a Trento, pensata come occasione per la lotta contro la base militare, nonostante abbia aperto una breccia in città, è stata risucchiata – a causa di un’inadeguata scelta dei tempi rispetto alla fase dei lavori nel cantiere di Mattarello – nel meccanismo occupazione-sgombero-risposta-repressione-risposta. Ad ogni modo diversi semi sono stati gettati. Si tratta di continuare con determinazione per sabotare la guerra dalla base.

Intanto anche altrove l’antimilitarismo sovversivo riprende timidamente a trovare la strada dell’azione diretta, con incoraggianti roghi di mezzi dell’esercito, attacchi alla propaganda bellica e alla logistica “civile” delle forze armate.

Che si intervenga contro le espulsioni, contro il nucleare o contro altre nocività, pensiamo che il problema della guerra dovrebbe essere sempre presente.

“Portare la guerra a casa”, diceva qualcuno in altra e più felice epoca. Forse non è mai suonato così attuale.

Rovereto-Trento, 13 settembre 2009

Barcellona, 25 settembre 2010

Rompere le righe

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