di Antonio Mazzeo
Dall’antichità è ritenuto uno dei corridoi marittimi più pericolosi per la navigazione. Lo Stretto di Messina vanta un triste record d’incidenti e collisioni, eppure continuano ad attraversarlo annualmente più di quindicimila imbarcazioni. Si tratta di superpetroliere, traghetti, navi da crociera e pescherecci, unità container con a bordo rifiuti radioattivi, tossici e nocivi, imbarcazioni da guerra di Stati Uniti d’America ed alleati NATO. E le portaerei giganti e i sommergibili a capacità e propulsione nucleare.
Il 5 aprile scorso l’ultimo transito atomico. Mentre alcuni curiosi assistevano all’attracco nel porto di Messina della nave da crociera “Splendida”, a pochi metri dalla costa è improvvisamente emersa l’inquietante sagoma nera di un sottomarino USA. Stamani la foto dell’hunter killer atomico a passeggio nello Stretto è stata pubblicata in prima pagina dalla Gazzetta del Sud.
“Secondo i dati acquisiti dal registro del sistema Vts di Forte Ogliastri, nella disponibilità della Guardia costiera, si è trattato di un sottomarino nucleare presumibilmente della classe Virginia, l’ultima nata dalla modernissima tecnologia americana, che ha preso il posto degli obsoleti sottomarini della classe Los Angeles”, riporta il quotidiano. Costruiti a partire del 2005 nei cantieri di Newport dai colossi General Dynamics e Northrom Grumman, i sottomarini Virginia hanno un costo di quasi 2 miliardi dollari l’uno, sono lunghi 115 metri, larghi 10 e pesano 7.900 tonnellate. Ma imbarcano soprattutto un reattore atomico modello “9SG” (di nona generazione) e i famigerati missili da crociera BGM-109 “Tomahawk” con doppia capacità, convenzionale e nucleare. Le azzardatissime manovre del sottomarino, in uno specchio d’acqua assai trafficato, avrebbero potuto avere conseguenze a dir poco catastrofiche. L’eventuale collisione con altra unità in navigazione, lo scoppio di un incendio a bordo, uno spiaggiamento come quello verificatosi appena due mesi fa in località Ganzirri alla nave “Rubina” (quasi un “Concordia” bis), avrebbero potuto trasformare lo Stretto nella Fukushima del Mediterraneo.
“In Italia, siamo già andati vicino al disastro nucleare nel settembre 2003, quando il sottomarino nucleare “Hatford” si danneggiò gravemente per aver urtato contro il fondale marino, nella zona vicina alla base della Maddalena, in Sardegna”, ricorda il professore Massimo Zucchetti, ordinario di Impianti nucleari del Politecnico di Torino. “Poi la Maddalena è stata abbandonata, ma le misurazioni della radioattività diedero dati allarmanti. Noi riuscimmo a determinare la presenza di materiale radioattivo, ed in particolare plutonio, in certe alghe nella zona dell’arcipelago. Ciò ci permise di dimostrare, contrariamente a quanto sostennero le autorità militari, che era avvenuta una sia pur limitata immissione di inquinanti nelle nostre acque”.
I dati statistici sul numero d’incidenti avvenuti ai reattori nucleari navali sono inquietanti. Negli ultimi quarant’anni si sono avute ben oltre un centinaio di emergenze nucleari o radiologiche ad unità di Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna e Francia. “Purtroppo, la sicurezza dei reattori nucleari su navi a propulsione nucleare è secondaria rispetto ad altre ragioni, strategiche, di produzione e di presenza della flotta”, aggiunge Zucchetti. “Mentre in campo nucleare civile esistono sistemi di sicurezza che sono obbligatoriamente presenti e senza i quali l’impianto non ottiene il permesso di funzionamento da parte delle autorità, su un sottomarino, la presenza di questi sistemi di sicurezza è limitata, per ragioni di spazio, di peso e di funzionalità. Essendo vascelli militari, sono soggetti all’approvazione e alla responsabilità esclusivamente delle autorità militari. Ci ritroviamo quindi col paradosso di reattori nucleari che non otterrebbero la licenza di esercizio civile in nessun paese, e che circolano invece liberamente nei nostri mari”.
Tutt’altro che remota la possibilità di un surriscaldamento del nocciolo del reattore per il mancato funzionamento del circuito di raffreddamento e finanche la fusione parziale o totale del nocciolo. “La fusione del nocciolo è un evento ipotizzato dai piani di emergenza di Taranto e La Spezia, due dei porti italiani utilizzati per le soste di navi militari nucleari”, rileva il fisico Antonino Drago dell’Università di Napoli. “Esso potrebbe provocare un possibile cataclisma tipo maremoto, dovuto allo sfondamento dello scafo da parte del nocciolo che fonde o evapora a milioni di gradi fondendo anche tutto ciò che incontra; si leverebbe una nube radioattiva che spazzerebbe larghe zone seminando morte, provocando un inquinamento del mare in proporzioni inimmaginabili, e in definitiva, attraverso le piogge, dell’acqua potabile e dei prodotti agricoli”.
Un caso di avaria all’impianto di raffreddamento, con conseguente perdita di refrigerante è avvenuto il 12 maggio 2000 al sottomarino d’attacco britannico “HMS Tireless”, mentre transitava al largo della Sicilia. Dopo aver ha spento il reattore, il comandante chiese di potere fare ingresso in un porto italiano, ma il permesso gli fu negato dalle autorità competenti per motivi di sicurezza. Il sottomarino si diresse poi nel porto di Gibilterra; l’entità dei danni subiti dal reattore costrinse l’unità all’ormeggio per diversi anni, generando le proteste della popolazione e una querelle diplomatica fra Gran Bretagna e Spagna.
Una quindicina di anni fa il Comitato messinese per la pace e il disarmo unilaterale pubblicò un rapporto sui più gravi incidenti che hanno interessato navi militari in transito nello Stretto. “L’alba dell’1 novembre del 1971 si verificò una collisione tra la nave delle Ferrovie dello Stato “Villa” e il sommergibile statunitense “Uss Hardhead” con propulsori deseal”, riportavano i pacifisti. “Il 29 novembre 1975, a circa 25 miglia nautiche dallo Stretto di Messina, nel mar Ionio, l’incrociatore USA “Belknap” subì una notevole fuoriuscita di nafta durante le operazioni di rifornimento con una nave cisterna. Al tempo il “Belknap” ospitava i sistemi missilistici “Asroc” e “Terrier” in grado di montare testate nucleari del tipo W44 e W45 da un kiloton”.
Tre gli incidenti verificatosi nel corso del 1977. Il primo, l’11 gennaio, a due miglia a nord da Capo Peloro, vide la portaerei statunitense a propulsione nucleare “Theodore Roosvelt” speronare un mercantile liberiano. “L’unità da guerra proseguì verso il porto di Napoli, pur avendo riportato la fenditura di 5-6 metri sulla prura a tribordo”, scriveva il Comitato per la pace. “La “Roosvelt” utilizzava come generatori due reattori e imbarcava un centinaio di testate nucleari del tipo B43, B57 e B61, con una potenza variabile dal mezzo Kiloton ad un Megaton”. Il secondo incidente avvenne il successivo 23 agosto: la portaerei “USS Saratoga”, anch’essa con un centinaio di testate a bordo, subì un incendio nei pressi dell’hangar per il ricovero dei caccia, a seguito dell’esplosione di un fusto di aerosol. “La velocità e la reazione professionale dell’equipaggio e la decisione di chiamare a distanza il Quartier generale hanno permesso di ridimensionare il potenziale disastro”, fu il laconico commento del Comando generale della US Navy. Il 6 ottobre, mentre era ancora una volta in transito nello Stretto, la “Saratoga” fu speronata sulla fiancata di dritta da un mercantile austriaco. “L’urto fu talmente violento che da una falla fuoriuscì una grossa quantità di nafta, ma anche in questo caso la “Saratoga” continuò la sua rotta senza rispondere ai messaggi radio del mercantile e della Capitaneria di porto”.
La sera del 3 gennaio 1983 fu la volta dell’incrociatore a propulsione nucleare “USS Arkansas” ad entrare in collisione con il mercantile italiano “Megara Iblea” davanti a Punta Pezzo. Notevoli i danni registrati dalle due unità. L’“Arkansas”, classe Virginia, era dotato al tempo di due reattori atomici ed armato con missili antisottomarino “Asroc” (con testate nucleari W44 da un kiloton) e da crociera “Tomahawk” (con testate W80 con un potenziale esplosivo variabile dai 5 ai 150 kiloton).
Singolare quanto accadde invece nella tarda serata del 15 ottobre 1985. “Nei pressi di Capo Peloro venne evitata in extremis la collisione tra una nave militare americana e la nave da crociera Achille Lauro in transito nello Stretto per imbarcare alcuni magistrati responsabili dell’inchiesta sul sequestro dell’unità da parte di un commando palestinese”, segnala il report del Comitato per la pace. “L’imbarcazione statunitense si era avvicinata pericolosamente alla Achille Lauro per spiare l’arrivo dei giudici. Il mancato incidente fu denunciato dal comandante Giuseppe Floridia, responsabile dell’Ufficio navigazione nello Stretto, che era riuscito a dirigere via radio l’Achille Lauro verso una nuova rotta ed evitare la collisione. Il comandante Floridia riuscì ad identificare la sigla della nave USA, F96, presumibilmente corrispondente alla fregata “Valdez”, classe Knox, dotata al tempo di tre missili “Asroc” armati con testate W44 da un kiloton”.