Enzo Rutigliano, Guerra e società

Dal comunismo di sinistra (in particolare dalle correnti consiliari) alla sinistra “antiterrorista”. Nella traiettoria esistenziale e politica del suo autore è contenuta la miseria del libro che abbiamo tra le mani.

Negli anni Settanta, Rutigliano era uno studioso intelligente di Benjamin, vicino alle posizioni di Korsch, di Mattick, di Pannekoek. Oggi il professore di sociologia sostiene che la sfida, di fronte alla minaccia del “terrorismo islamico”, è quella di conciliare la sicurezza della società liberale con le libertà democratiche. Perché parlarne, dunque? Per due ragioni distinte.
Il secondo capitolo del libro (“Le trasformazioni della guerra nel corso dei secoli”) può assolvere alla modesta funzione di una rapida e chiara rassegna delle forme belliche dall’Iliade alla guerra di guerriglia novecentesca.
Che il modo di combattere (e di teorizzare la guerra) rifletta e modifichi i rapporti sociali di un’epoca non è una novità. Ma è utile – e tutto sommato raro – avere sott’occhio una traccia schematica delle trasformazioni più significative avvenute nell’arte bellica. Omero, Sun Tzu, la falange, la legione, la cavalleria, Machiavelli, le armi da fuoco, Clausewitz, Schmitt, la guerra partigiana, gli attuali contractor: orientarsi tra le epoche e le teorie non è esercizio vano, specie per i rivoluzionari. D’altronde, per capire quanto la falange greca e la legione romana abbiano profondamente (e orribilmente) segnato la storia militare è sufficiente un’esperienza assai contemporanea: una carica della Celere.
Così come nella ricchissima tradizione del pensiero strategico orientale non mancano massime e suggerimenti preziosi anche per i sovversivi di oggi. Ascoltiamo Sun Pin (Metodi militari): “Se si comincia ad applicare una tattica non ortodossa ed essa non suscita una reazione, si vincerà. […] Secondo coloro che studiano la forma, non vi è alcuna cosa che non abbia un nome; e tra le cose che possono essere nominate, non vi è nulla che non possa essere sconfitto”.
Per saper distinguere le tecniche utili al potere e quelle utili ai suoi nemici – e veniamo qui al secondo punto – bisogna tuttavia decidere e conoscere il proprio campo. Decisione e conoscenza che non sono mai neutre.
Infatti, Rutigliano non si limita all’intelligenza del repertorio, dei brani, dei riferimenti. Vuole anche dirci la sua sul “terrorismo”, sul fondamentalismo, sull’Islam radicale, sulla psicologia del kamikaze.
Siamo, come tutti ormai sanno, nell’epoca delle guerre asimettriche. Il capitalismo, per il nostro professore, non c’entra nulla (ma le modalità della guerra non erano inseparabili dalla società in cui maturano?). La globalizzazione tecnologia, questa presunta fatalità storica, permette oggi ad ogni “gruppo terrorista” di sfuggire alla rigidità delle vecchie forme organizzative e di essere allo stesso tempo ovunque e da nessuna parte, precipitando la società democratica nel panico.
Per il sociologo trentino, è il “terrorismo islamico” ad aver scatenato la guerra in Afghanistan e in Iraq, ad avere fatto crescere a dismisura l’industria della sicurezza e ad aver giustificato la spirale del controllo totale. Non solo. La disposizione al martirio dei ragazzi kamikaze avrebbe ben poco a che vedere con le condizioni economiche e sociali delle terre in cui vivono o da cui provengono. La loro “psicologi suicidaria” riflette un forte bisogno di identità abilmente manipolato dai nemici dell’Occidente, ecco tutto.
Che fare, allora? I bombardamenti della Coalizione dei Volenterosi sono stati, secondo Rutigliano, una risposta fin troppo “paziente”.
Quando si confondono così sfrontatamente cause, effetti e pretesti, persino “il nostro razionalismo occidentale non c’è più d’aiuto”. Serve altro: la superstizione fanatica della democrazia.

N.
(tratto dal numero 16 di “Invece”, mensile anarchico)


Comments are disabled.