Brano di Percy Bysshe Shelley tratto da “La Regina Mab”, Edizioni Solfanelli 2014.
Eccoli i bravi prezzolati che vegliano sul trono del tiranno
Fare ricorso all’omicidio come strumento di giustizia è un pensiero su cui un uomo dalla mente illuminata non indugerebbe volentieri. Marciare ordinati in ranghi e file, sfoggiando bardature e trombe, con l’obiettivo di sparare ai nostri consimili, infliggervi tutte le varianti delle ferite e delle sofferenze, lasciarli a rivoltarsi nel proprio sangue, vagare su campi desolati contando i morti e i morenti: sono tutte misure che, teoricamente, potremmo considerare necessarie, ma che nessun brav’uomo potrebbe elogiare o ammirare. SI vince una guerra: la verità è salva, la causa della giustizia trionfa! Forse c’è bisogno di un intelletto fuori dal comune per trovare il nesso fra questo enorme cumulo di sciagure e l’affermazione della verità o la tutela della giustizia.
“I re e i ministri, i veri artefici della calamità, siedono indisturbati nei loro uffici; i bersagli della furia della tempesta sono principalmente uomini che sono stati reclutati con l’inganno, o trascinati contro la loro volontà dalla pace domestica al campo di battaglia. Un soldato è un uomo il cui compito è uccidere coloro che non l’hanno mai oltraggiato, martiri innocenti degli sgarbi di altri uomini. Qualunque sia la risposta al quesito astratto circa la giustificabilità della guerra, sembra impossibile che un soldato possa non essere un uomo vizioso e snaturato.
A queste considerazioni serie e di basilare importanza potrebbe essere opportuno aggiungere una raccolta delle ridicolaggini dell’indole militare. La sua caratteristica principale è l’obbedienza: fra tutti i tipi di uomo il soldato è quello che somiglia di più ad una macchina, ma la sua professione gli impartisce necessariamente lezioni di intolleranza, spavalderia, vanagloria. È la marionetta di un burattinaio e sebbene sia fatto marciare, vantarsi e ostentare le espressioni più ridicole, sappiamo perfettamente che non può fare il minimo gesto, né marciare a destra o a sinistra , senza che il suo manovratore non lo muova”. Godwin, Enquirer, Essay V.
Aggiungerò un breve poemetto che esprime fortemente il mio disprezzo verso il dispotismo e la falsità; temo che non sarà mai più ritratto in maniera così vivida. Questa è forse l’unica opportunità di salvarlo dall’oblio.
MENZOGNA E VIZIO
Un dialogo
Quando i tiranni risero sui troni
udendo pianti di genti e di nazioni,
e la ricchezza frutto della pena
sgorgò abbondantemente come fiume in piena –
quei troni, eretti su cumoli di ossa
ove l’ossessa Carestia riposa,
ove il Giogo la frusta d’acciaio brandisce,
impassibile al sangue dell’uomo che ferisce,
e della Guerra i demoni feroci
stridono con grida ebbre e atroci –
Menzogna e Vizio, l’accoppiata tetra,
s’ersero sopra l’infelice terra.
MENZOGNA
Fratello! Sospendi il tuo pasto prelibato
con pena e sangue imbandito da milioni;
pasto più ghiotto, al tuo orecchio affamato,
è quel che dirò degli umani dolori.
VIZIO
Di’, misteriosa: forse i tuoi danni,
di cui tu parli con vanesio orgoglio,
competono con i miei, che tanti anni
hanno colmato di strazio e di cordoglio?
MENZOGNA
Competere! Ricorda che io ho strappato
le vesti dell’infante Verità indifesa
e dappertutto sul mondo desolato
sparsi l’incanto ammaliatore, illesa:
i miei tiranni-schiavi, nel buio e nel profondo
d’una cella rinchiusero l’intrepida innocente,
e molti torrenti di sangue fecondo
sgorgarono dal taglio del petto dolente;
con lama precisa io glielo inflissi.
Temetti quel sangue – non più! Coraggio,
sebbene, lo so, giammai io la sconfissi,
cadrà sulla nostra lapide il suo raggio.
Ricorda, Vizio: non t’avessi io dato
la veste che al Cielo, ho saccheggiato,
la tua laidezza, il tuo orrido aspetto
mai avrebbero estorto alcun rispetto.
VIZIO
Io, ricorda, non volli faticare
e stiedi nel mio antro cupo ad aspettare,
e nulla diedi ai tre eredi di Dio:
ORO, POTERE, e l’orrido OMICIDIO.
Con tutta la tua arte, se tu avessi osato
giocare la partita che non hai mai tentato,
ti dico, Menzogna, che in barba alla tua boria
mai ti saresti presa una vittoria!
Dunque, mi chiedo, perché non disputiamo?
Al medesimo fine fraternamente andiamo;
nella gelida tomba sotto i miei piedi
l’approdo di paura e di speranza vedi.
MENZOGNA
Portai in terra mia figlia, Religione,
che uccise in culla i figli di Ragione
tremando al gelo del materno sguardo;
fuggì, paurosa, ma con un piano scaltro
e sguinzagliò i segugi, dalla tani sorti,
per sterminar sogni d’uomini e donne morti,
ed obbedienti all’occhio velenoso
compirono l’ufficio nel mondo spaventoso.
L’orrido tanfo della sua torcia brillante
di carne umana rese l’aria appestante
e l’eco disperato di infiniti lamenti
di mille e altre mille anime gementi
mentr’ella marciava, in alto si levò,
e vittoriosa mi incoronò!
Fratello, dimmi tu cosa compisti?
VIZIO
La luce del solo in pieno giorno estinsi,
col fumo di carne delle guerre che vinsi,
Carestia, Potere, Morte e Tormento,
furon satolli nel fiero godimento;
così promise il misterioso Fato
con il sigillo su cui aveva giurato.
Il miserabile tronfio su quel trono
comandò guerra alla povera mischia,
godette udendo il disperato tono
innalzato da un coro di mestizia.
Le vipere, sovrane di melma e di sporcizia,
sorrisero estasiate con gioia e malizia,
credevan fosse loro, ma è mia, l’impresa,
l’impegno, sì, fu il loro, ma da me è dipesa
la folla dei morti, l’insanguinata resa.
I tiranni li spinsero a dichiarare guerra,
ad appestar con fumi e veleni la terra;
i tiranni si batton per il mio nome
e si fan grandi con atti d’assassinio onore;
si battono, sempre, in gloria del mio nome,
da mane fino a notte s’ingegnarono sul come.
Mia è l’impresa! Senza il mio soccorso
tua figlia, la vergine che mai ha riposo,
su di un morente non potrebbe comandare
né la sua frusta furibonda alzare.
MENZOGNA
Bene, fratello, il mondo è nostro
e che tu o io lo abbiamo conquistato
si staglia l’impaziente pestilenza-mostro
di sopra il mondo e sul sole oscurato.
Fatica e gloria e piacere hanno una sorte:
il bianco e verminoso sudario della morte.
Brevi speranze, affanno senza fine,
aridi scarti di suppliche divine,
cupe sventure, e sonno concitato,
tutto divora il sepolcro spalancato;
il sogno d’un re, d’un pavido di tremore
il gelo che morde d’un prelato il cuore,
il ciglio d’un legale, il riso d’un ruffiano
per tutto questo noialtri ci affanniamo.
Che la coppa del male, fratello, sia la mia
senza di me, ricorda, sarebbe esiguo il danno,
e, senza te, mai sarebbe saziato
il custode dell’uscio dei Cieli serrato.