CIVILTA’ DELL’ORRORE
Spesso presentato come il «George Orwell americano», Dwight Macdonald (1906-1982) può esser definito un eretico del marxismo. Irrispettoso della disciplina di partito, fu un accanito anti-stalinista che ruppe anche ogni rapporto col trotzkismo. Nemico del progresso scientifico, in cui non vedeva affatto una premessa di liberazione, sosteneva che un’opposizione radicale a questo mondo dovesse fondarsi sulla tensione etica. Diffidando del passo di marcia delle masse, prediligeva i sentieri dell’individuo.
Nel 1944 fondò la rivista “politics” con l’intento di raccogliere e diffondere le voci di alcuni intellettuali di sinistra fuori dal coro — fra gli altri Paul Goodman, Albert Camus, Nicola Chiaromonte, Simone Weil, Hannah Arendt, Victor Serge. E proprio su questa rivista tra il marzo e il settembre del 1945 furono pubblicati i saggi qui raccolti, autentici testi precursori di quel pensiero critico secondo cui le peggiori atrocità commesse durante la seconda guerra mondiale — dall’Olocausto alla bomba atomica — non sono state un incidente della Storia, bensì un vero e proprio prodotto della civiltà occidentale. La stessa che impera ancora oggi.
La responsabilità dei popoli
«Quando è stata presa eravamo un po’ nervosi», ammise successivamente la madre della ragazza. «Non si sa mai cosa può accadere quando iniziano ad usare gli elettrodi. Ma non avevamo nulla di cui preoccuparci. Non ha dato ai tedeschi un solo nome o indirizzo, e nessuno è stato arrestato».
La ragazza faceva parte della Resistenza francese; arrestata dalla Gestapo, fu torturata a morte mentre sua madre veniva tenuta nella cella accanto in modo di farle sentire le urla della figlia. Questa era l’Europa sotto i nazisti: il riferimento alla tortura come dato di fatto; la modernità tecnologica degli strumenti; l’atteggiamento politicizzato della madre — «non avevamo nulla di cui preoccuparci» perché «non ha dato un solo nome». È accaduto qualcosa ai tedeschi — per lo meno ad alcuni di loro; è accaduto qualcosa all’Europa — per lo meno ad una parte di essa. Che cosa?
Preambolo a La Bomba
Alle 9.15 antimeridiane del 6 agosto 1945, un aereo americano ha sganciato una singola bomba sulla città giapponese di Hiroshima. Esplosa con l’energia di 20.000 tonnellate di TNT, la bomba ha distrutto in un battito di ciglia due terzi della città, inclusa presumibilmente la maggior parte dei 343.000 esseri umani che ci vivevano. Non è stato dato nessun tipo di preavviso. Questo atroce atto pone «noi», i difensori della civiltà, sullo stesso livello morale di «loro», le bestie di Majdanek. E «noi», il popolo americano, siamo chi più chi meno tutti responsabili di questo orrore quanto «loro», il popolo tedesco.
La Bomba
Ad averci spaventati è stata innanzitutto la sua esplosione.
«Il TNT è appena due volte più potente di quanto lo fosse la polvere nera sei secoli fa. La Seconda Guerra mondiale ha visto una produzione di esplosivi sessanta per cento più potenti del TNT. La bomba atomica è 12.000 volte più potente del migliore TNT. Centoventitré aerei, tutti caricati con una sola bomba atomica, trasporterebbero una potenza distruttiva pari alla totalità delle bombe (2.453.595 tonnellate) sganciate dagli Alleati sull’Europa durante questa guerra»
Dwight Macdonald
CIVILTÀ DELL’ORRORE
pp. 100, 6 euro
Gratis
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AUTUNNO TEDESCO
di Stig Dagerman, edizioni Iperborea, gennaio 2018
«Autunno tedesco è uno dei migliori libri mai scritti sulle conseguenze della guerra, nella tradizione di grandi classici come quello di John Reed sulla Russia e di Edgar Snow sulla Cina.»
Henning Mankell
Nel 1946 furono molti i cronisti che accorsero in Germania per raccontare quel che restava del Reich finalmente sconfitto, ma dal coro di voci si distinse quella di uno scrittore svedese di ventitré anni, intellettuale anarchico e narratore dotato di una sensibilità fuori dal comune, inviato dall’Expressen per realizzare una serie di reportage poi raccolti in un libro che è considerato ancora oggi una lezione di giornalismo letterario. Mentre le testate di tutto il mondo offrono il ritratto preconfezionato di un Paese distrutto, che paga a caro prezzo gli orrori che ha seminato e dal quale si esige un’abiura convinta, Dagerman, libero da ogni pregiudizio ideologico e rifiutando ogni generalizzazione o astrazione dai fatti concreti e tangibili, si muove fra le macerie di Amburgo, Berlino, Colonia, su treni stipati di senzatetto e in cantine allagate dove ora vivono masse di affamati e disperati, cercando di capire nel profondo la sofferenza dei vinti. Ne emerge un quadro molto più complesso di quello che è comodo figurarsi. Mentre ci si accanisce a cercare nostalgici nazisti, Dagerman si chiede come può un padre che vede morire il figlio di stenti dichiarare che ora sta meglio di prima; mentre le potenze occupanti pensano a punire e ad allestire processi, Dagerman descrive la «messinscena» di una denazificazione di facciata e la morte spirituale di un Paese che è troppo impegnato a lottare ogni giorno con la morte per riflettere sui propri errori, perché «la fame è una pessima maestra» per educare i colpevoli. Con il suo acume analitico e la sua empatia capillare, Dagerman scava nelle contraddizioni della Germania postbellica offrendoci un manifesto di accusa contro tutte le guerre, e una riflessione amaramente attuale sul potere, la giustizia e lo Stato.