Tratto da finimondo.org
Il tramonto del machiavellismo
Georges Henein
Le luci delle grandi città sono troppo docili. Sono sempre pronte a spegnersi al primo ordine. Così avvenne in un crepuscolo del settembre 1939. Degli uomini percorrevano le strade e passarono una mano di scuro sui lampioni. Fu come se le metropoli dell’occidente si vestissero a lutto, in una brusca e malefica vedovanza.
L’oscuramento del linguaggio politico richiese più tempo. Nondimeno, dal 1935 al 1945, abbiamo avuto modo di apprezzare le creazioni, le innovazioni terminologiche che, col pretesto di sfumare la realtà, erano altrettanti insistenti inviti alla cecità mentale. Si trattava insomma di impiegare ogni accorgimento per mascherare un impudico spettacolo, nel timore che un pubblico troppo sensibile non ne tollerasse la vista.
Si ebbe all’inizio, durante gli anni della guerra di Spagna, la sinistra avventura del «non intervento». Primo esempio di una Corea piantata nel cuore dell’Europa, la Spagna servì da banco di prova alle tecniche — che poi andarono costantemente perfezionandosi — dell’infiltrazione, della guerra psicologica, dell’organizzazione di corpi di «volontari», in una parola, della clinica manipolazione della crisi di una nazione per scopi estranei al suo destino. Da quel momento l’arte di non intervenire divenne uno degli aspetti dell’azione militante di talune grandi potenze.
Ci fu poi l’equivoco della «non belligeranza», che sembrava dovesse significare uno stato d’animo di particolare simpatia per uno dei belligeranti, senza che si potesse dire con precisione dove terminava la simpatia e dove cominciava la complicità. Nel 1943 si ebbe pure lo strano episodio della «co-belligeranza» praticata dagli alleati verso l’Italia e che, a seconda delle circostanze e dei bisogni, venne di volta in volta interpretata come una ricompensa o come una punizione.
In Asia, il Giappone volle a sua volta dare un nome alle sue rischiose imprese. Combinando la propaganda con l’offensiva militare, pretese di offrire ai suoi vicini una comune zona di prosperità, il che non era evidentemente che una maniera elegante di porre sotto tutela le loro risorse e di curarne lo sfruttamento a proprio esclusivo vantaggio.
In realtà tutti questi vocaboli fumosi, la cui vera funzione era di fuorviare gli spiriti — «non intervento», «non belligeranza», «co-belligeranza», «co-prosperità», per non parlare di altre formule in apparenza più chiare ma non meno sospette —, appartengono al Museo della Mostruosità del Linguaggio. Tuttavia il continuo ricorrere a definizioni così improprie e nebulose costituisce di per sé un’importante indicazione. È segno che stiamo attraversando un periodo di Grande Scisma. Uno scisma che anzitutto esiste nell’anima dei singoli, la quale esita a riconoscere se stessa per ciò che è, e che spesso, per il timore di una irrimediabile solitudine o per il terrore di un mondo ridivenuto vulcanico, si pone alla mercé di forze collettive. In secondo luogo, uno scisma degli Stati. Indubbiamente noi andiamo verso l’Universale verso l’Unità Mondiale ma sta di fatto che ci andiamo per via di una chirurgia infinitamente scabrosa. Oggi l’alleato racchiude il nemico. Il sentimento di chi è neutrale risulta un impasto di ostilità, di attesa e di amicizia. Si taglia in due un paese per dargli una possibilità di sopravvivere. Nel vedere come si agitano i conduttori di popoli, si penserebbe che si sforzino di costruire un’Arca di Noè coi relitti d’un immenso naufragio.
D’altra parte è abbastanza sorprendente osservare che tale proliferazione di termini ellittici, questo esprimersi per allusioni, che non solo non reca alcuna testimonianza degli avvenimenti ma basterebbe a renderli inintelligibili, corrisponde ad un periodo della nostra storia, in cui la diplomazia si fa al balcone ed in cui le masse sono convocate nella pubblica piazza per acclamare dei capi che si servono della parola come di una nuova specie di tuono. Il compito inutilmente assurdo delle cancellerie era quello di tradurre questo enorme rumore in una musichetta di minuetto. Ingrata bisogna intesa a mascherare agli occhi degli uomini il baratro della guerra, del disordine, dell’avventura in cui ci si apprestava a precipitarli. Ma il minuetto delle cancellerie ebbe un altro risultato. Provocò nelle coscienze una sorta di incredulità generale che dura tuttora. Di proposito dico «incredulità» e non «scetticismo». Un essere disubriacato non è perduto per la ragione, anzi. Le grandi masse anonime sanno di costituire la materia prima di ogni costruzione della Storia, e di essere lo strumento tragicamente vulnerabile delle rivalità chiamate a modificare la carta del mondo. Nonostante il gergo che si usa per eccitarle o per ammansirle, esse hanno appreso a distinguere fra una mannaia e un ventaglio, fra un detonatore e un trastullo da bambini. È ormai difficile ch’esse aderiscano a concetti truccati, ed è anche difficile che credano a coloro che incarnano la decadenza della parola. Non è dunque il linguaggio ad essere fuori causa, screditato, tenuto in sospetto, bensì la sua caricatura. Ne deriva un crescente bisogno, per chi desidera appassionatamente un poco di verità, dì sboccare con i suoi soli mezzi ad una libertà nuova che non sia più una semplice facoltà d’espressione, ma un modo di contatto, una libertà che sorga dalla scoperta degli altri.
Oggigiorno, aderire significa avvicinarsi a ciò che vive. E ciò che vive non è la logomachia senza speranza delle conferenze di esperti: è il tumulto dell’insieme umano, il movimento dei gruppi e delle comunità di ogni grandezza, è il pulsare degli esseri umani che si cercano da un punto all’altro del pianeta come sconosciuti in una gigantesca stazione: è l’incontro di coloro che non si son dati mai appuntamento, la comunicazione di tutti coloro che rimangono al di fuori della parola — ciò che vive questo fenomeno di una umanità sino ad ora spezzettata, esasperata e divisa in terribili rivalità tribali e che, per la prima volta, sente il bisogno di articolarsi non già in quadri amministrativi o statali, ma in una storia viva che sorga dalla sua stessa psiche e dalla sua stessa affettività. Assistiamo alla nascita di qualcosa di importante nel campo delle relazioni fra gli uomini. Siamo all’inizio di un’opera il cui contenuto esita a manifestarsi e i cui contorni ancora sono vaghi.
È per queste ragioni che l’espressione timida e un poco patetica di «coesistenza» ha qualche possibilità di avere una sorte diversa da quella che ha sepolto nell’oblio e nella derisione le formule che l’hanno preceduta. V’è in questa espressione un equilibrio fra due cose intimamente legate: l’appetito di contatti umani e il desiderio di mettere ordine nella vita. Per ora la coesistenza ha dato luogo soprattutto a innumerevoli dichiarazioni di carattere piuttosto pubblicitario. Ma guardiamoci bene da dar segni di impazienza! Con tutte le goffaggini che accompagnano il nostro procedere, quello di gente rimasta per molto tempo e volontariamente confinata, stiamo entrando in una fase di apprendistato dei rapporti umani.
Vediamo bene che gli uni e gli altri considerano la coesistenza piuttosto una sosta che un passo avanti. È anche probabile che taluni attendano dalla coesistenza la stabilizzazione della tensione che snerva il mondo. Il progresso in questo campo sarà ancor più lento che in quello delle realizzazioni materiali e degli sviluppi tecnici. Di approssimazione in approssimazione, ci si abituerà a esistere gli uni accanto agli altri. Ma sarà per far posto, un giorno, ad un’altra esigenza, ad un altro modo di essere che consisterà nell’esistere con gli altri. E questa volta la prospettiva avrà veramente acquistato ampiezza. Sottratta al gioco dell’economia, la relazione umana sarà in certo qual modo un’opera d’arte, una morale della coppia. Come opera d’arte sarà una continua creazione. Come morale della coppia comporterà un senso inalterabile di solidarietà nella vita. Parità, non divisione. E se dovrà sussistere la contesa che costituisce pur sempre il nostro principio motore, bisognerà pure ch’essa si eserciti in una prospettiva di coscienza e persino di passione, ma non più a vantaggio di un più grande potere. Tutto questo è teoria — si obietterà. Ma chi è convinto che nell’abbozzo di questo quadro tutto sia fittizio ed irrealizzabile, rinunci onestamente a parlare dell’avvenire. Nel XIX secolo il tema favorito dei teorici era la ricerca di una maggiore armonia. Nel XX secolo i loro discendenti pensano di poter risolvere tutti i problemi con le norme di organizzazione. Gli insuccessi dei primi hanno fatto dell’armonia un desiderio nostalgico ma sempre singolarmente splendido. Le imprese dei secondi finiscono per far sorgere un gravissimo dubbio sui meriti dell’organizzazione, concepita come la chiave di una condizione migliore. Rimane il fatto che tanto gli uni che gli altri hanno intravisto, ciascuno a modo proprio, la riconciliazione umana. Quando diciamo che stiamo facendo l’apprendistato dei rapporti umani, vogliamo dire che lavoriamo ora e che lavoreremo domani per porre fine al nostro stesso esilio. Bisogna decidersi a riconoscere, come scrisse Dyonis Mascolo, «che l’uomo della storia e l’uomo dello spirito sono lo stesso uomo, che hanno lo stesso senso, o che non hanno alcun senso se rimangono separati».
Parimenti, è a questa situazione di cui molti pensatori non misurano ancora la novità, perché essa, più che opera della intelligenza tout court, è opera di tutti gli uomini; è a questa situazione originale e sconvolgente che si attaglia la frase di Giorgio La Pira: «Assistiamo alle ultime convulsioni del machiavellismo».
Il machiavellismo, che fu un modo di governare, cioè di frantumare la spontaneità degli uomini, è ora condannato a sparire. È condannato a perire non già a causa dei pensatori, ma perché a poco a poco gli uomini faranno a meno di intermediari e si interpelleranno direttamente chiamandosi per nome.
[Incontri Mediterranei, n. 3, aprile-maggio 1961]