Tratto da finimondo.org
Più nulla sembra poter fermare la corsa bellica. Da quando la rivolta popolare in Siria si è trasformata in guerra civile di lungo corso, i massacri, le distruzioni e gli esodi hanno superato di gran lunga ciò che riusciamo semplicemente a concepire. I bollettini di morte hanno da tempo rinunciato a fare gli aggiornamenti quotidiani. Cento, duecento, quattrocento, settecentomila morti… Tre, quattro, sei milioni di rifugiati. Mille, quindicimila, trentamila attacchi aerei. I massacri avvengono su una scala fuori dalla portata del nostro cervello. Eppure, sono fin troppo reali.
La rivolta in Siria è diventata un magma di interessi internazionali (Stati Uniti, Russia, Iran, Israele, Turchia, Francia, Inghilterra, Arabia Saudita…), in cui alleanze e accordi oscillano nella corsa verso il baratro finale. Tutto sembra indicare che un’ulteriore estensione della guerra sia ineluttabile, superando la soglia di uno scontro indiretto tra potenze coinvolte nella guerra siriana verso conflitti aperti, dalle conseguenze imprevedibili, a prezzo di altre decine di migliaia di morti. Così verrà modellato il nuovo mondo in cui non tarderemo a svegliarci, un mondo diverso da quello della Guerra Fredda, diverso dal dominio di un gendarme del mondo dagli accenti democratici garante della pace dei mercati con operazioni militari limitate ad una precisa regione. L’invasione di Afrin da parte dell’esercito turco è forse il preludio dell’estensione di una guerra annunciata, dai tratti ben più vasti.
Siamo lontani dai sollevamenti che hanno scosso tanti paesi in un momento in cui la ristrutturazione capitalista mondiale si affermava sempre di più. Questi sollevamenti, le loro grida di rivolta e di libertà, sono stati spesso affogati nel sangue, aprendo la strada ad un’accelerazione della militarizzazione, ad una moltiplicazione degli interventi militari, con tutte le loro conseguenze anche all’interno dei paesi belligeranti. Se le centinaia di migliaia di profughi che arrivano in Europa hanno condotto un po’ di quelle «guerre lontane» e delle devastazioni capitaliste alla porta delle democrazie occidentali, se gli sporadici attentati jihadisti hanno fatto riecheggiare il suono degli attentati indiscriminati – la guerra è guerra! – nelle strade di diverse città europee, la spirale in cui il mondo sta per lanciarsi porta direttamente ad una vera e propria guerra sia esterna che interna, che non lascia più nessuno al riparo.
La guerra che monta con forza giorno dopo giorno determinerà i contorni del mondo di domani. E gli anarchici, in tutto questo? Ci saranno ancora, attraversando la prova del fuoco in questo mondo di domani? Niente è meno certo, tanto più che siamo già – diciamolo chiaramente – terribilmente in ritardo. Noi guardiamo ancora a un ennesimo movimento sociale come se annunciasse in sé una nuova ondata di sovversione, lottiamo contro questo o quel progetto del dominio, ma senza includere queste lotte in un contesto più ampio, più vasto, più internazionale, e restiamo un po’ a bocca aperta quando persino le nostre pubblicazioni o le nostre sedi si trovano nel mirino della democraticissima giustizia antiterrorista. Ci muoviamo entro i margini che ci vengono lasciati, piuttosto che su terreni da noi stessi creati e conquistati con forza e convinzione. La questione non è di insistere sull’urgenza, quanto di portare uno sguardo lucido e critico su a che punto siamo davvero. Il mondo va in fiamme, i massacri seminano gli odi di domani, le favole di un mondo fatto di tecnologie partecipative e inclusive si rivelano ogni giorno di più per ciò che sono: controllo e ancora controllo. E noi, in tutto questo? Niente, o molto poco. Se è sempre tempo di sbattere la porta, come diceva qualcuno, tanto vale provarci. Provare, partendo dalle nostre idee anarchiche, rifiutando la guerra dei potenti, rifiutando la pace dei mercati, alzando il nostro sguardo verso la sola liberazione che non è foriera di nuove oppressioni: una rivoluzione sociale che distrugga da cima a fondo le vestigia dell’autorità, la mentalità di obbedienza e sottomissione. Puntare alla rivoluzione sociale è assurdo, in tempi in cui ogni prospettiva rivoluzionaria sembra così lontana? Forse, ma i tempi non sono più approssimativi, e nemmeno buoni per proposte possibiliste o nichiliste che riflettono fin troppo questo mondo: il realismo o il nulla. Per gli anarchici, che voglionotutto, subito, e molto di più, occorre un progetto, con proposte chiare, lucide, coraggiose. Le idee ci sono, maturate nel corso dei secoli, spesso messe a dura prova, a volte approfondite e spesso trascurate, ma ci sono. Distruzione di ogni autorità, guerra contro ogni potere e ogni schiavitù, libertà per tutte e tutti. Anche le nostre armi ci sono: sabotaggio, azione diretta decentrata, attacco senza mediazione, immaginazione creativa piuttosto che programma. Anche i nostri metodi esistono: azione individuale, gruppi di affinità, coordinamenti puntuali, lotta di «guerriglia» asimmetrica piuttosto che guerra militarista, auto-organizzazioni informali e solidarietà rivoluzionaria. A partire da questo, sì, anche in un momento in cui il mondo si dirige verso l’abisso, abbiamo qualcosa da dire, qualcosa da fare, qualcosa da proporre.
Il cielo può anche offuscarsi, la morte può anche essere in agguato, ma non vogliamo in nessun caso rinunciare alle nostre proposte anarchiche, qui come altrove. Amiamole, difendiamole, battiamoci per esse. Non è detto che avremo una seconda possibilità.
[Avis de Tempêtes, n. 4, 15 aprile 2018]