tratto da finimondo:
Errico Malatesta
«Noi siamo andati in Libia per portarvi la civiltà, col diritto che ci dà la nostra civiltà superiore. Quando un popolo ha bisogno di espandersi, quando ha bisogno di trovar posto per la sua popolazione esuberante e di esercitare la sua potenza di lavoro, ed altrove si trova un territorio che i suoi abitatori sono incapaci di mettere in valore, quel popolo, più intelligente, più sapiente, più energico, più civile in una parola, ha diritto di prender possesso del territorio poco o punto utilizzato, ed imporre il suo dominio alla popolazione che lo occupa. Colla violenza, se non si sottomette volontariamente. Non si ha il diritto di restare barbari, come non si ha il diritto di restare ignoranti».
Così dicono i nazionalisti che si piccano «d’intellettualità»; così diceva ancora ieri uno dei capi repubblicani… libici.
Ed i nazionalisti anarcheggianti e rivoluzioneggianti (vi è anche qualche raro esemplare di questa specie peregrina) aggiungono: «La guerra è scuola d’energia; un popolo che è capace di far la guerra è capace anche di far la rivoluzione. La conquista della Libia preludia e preannunzia la conquista del dominio sociale da parte dei lavoratori».
Nel caso concreto tutto questo non è che retorica svergognata. L’Italia ha soprattutto bisogno di civilizzare se stessa, di mettere in valore il suo territorio, di istruire le popolazioni analfabete. Se la civiltà superiore dà il diritto di conquista, quante parti d’Italia dovrebbero sottoporsi di buon grado al dominio straniero!!!
E quanto agli effetti moralizzatori, «rivoluzionari» della guerra, i fatti son venuti ben presto a confermare e sorpassare le nostre più tristi previsioni. I soldati d’Italia che han combattuto in Libia, abbrutiti dalla disciplina più ferrea che richiede la guerra, induriti dalla pratica dell’assassinio, han ripetuto a Roccagorga, contro lavoratori italiani, miseri, affamati, supplicanti, fuggenti, le scene selvagge di Sciara-Sciat! (*)
Ma portiamo la questione sul terreno dei principi generali e permanenti.
Lasciamo stare il «diritto», che in teoria è l’espressione di ciò che ciascuno considera utile e buono e quindi varia secondo i vari interessi ed i vari sentimenti, ed in pratica è la consacrazione dei privilegi conquistati dai trionfatori del momento.
Parliamo piuttosto dell’interesse umano, visto che tutti, almeno a parole, dicono di volere il maggior bene possibile di tutti gli esseri umani, il raggiungimento del tipo più elevato di uomo che sia possibile.
È certamente nell’interesse di tutti che tutta la terra sia utilizzata il meglio che si può, e che tutti siano istruiti, e che la civiltà, la vera civiltà, sparga dovunque i suoi frutti benefici.
Ed è un fatto che vi sono differenze enormi di sviluppo e di civiltà fra i diversi popoli e fra i diversi gruppi ed individui dello stesso popolo.
Ma, supponendo anche che le collettività e già individui più avanzati si facciano guidare nell’opera loro dall’interesse generale, supponendo anche che sia possibile stabilire quale sia veramente il tipo di civiltà superiore e che questo tipo resti superiore anche se trapiantato in altro terreno, è pratico, è desiderabile che il meglio sia imposto per forza? E può questa imposizione rispondere ai fini veri della civiltà, che non possono essere se non il massimo benessere e la massima libertà di tutti, il massimo sviluppo materiale, morale ed intellettuale di ciascuno?
Osserviamo anzitutto che se si ammette che il bene si deve imporre per forza e che i migliori hanno il diritto di governare, di dominare gl’inferiori, si scalza alla base ogni regime democratico, il quale quando non è una menzogna mantenuta dall’inganno e dalla corruzione, è la prevalenza del numero inconscio, il dominio della maggioranza, cioè della parte meno illuminata di ogni paese.
Scartata allora la democrazia, scartata la repubblica che è la vera democrazia, qual è il regime che ci proporranno i nostri «civilizzatori»?
Il despotismo?
Ed infatti vi sono delle scuole, se non dei partiti, che veggono la salvezza nella instaurazione di un despotismo illuminato di un uomo, di una classe o di una setta.
È in fondo l’ideale di tutte le sette religiose e filosofiche.
Ma, in pratica, chi sarà il despota?
È veramente l’individuo più intelligente e più buono, o la collettività più sviluppata e più altruistica quella che ha le qualità volute per imporsi e dominare colla forza?
E quand’anche può la forza esercitare un’azione moralizzatrice ed elevatrice di coscienze? Non è vero invece che essa spezza le energie migliori dell’animo e, sia pure colle migliori intenzioni, non riesce che a far degli schiavi? E non è vero che il potere irresponsabile corrompe fatalmente chi ne è investito, individuo o classe, lo acceca e gli dà la più ridicola e la più pericolosa delle manie, la mania della grandezza?
E poi chi soffrirebbe oramai un governo assoluto.
Dunque non resta che l’anarchismo — l’anarchismo che è violento quando si tratta di respingere la violenza e di conquistare il suo diritto all’esistenza, ma che non conta per la diffusione e il trionfo dei suoi ideali che sulla persuasione e sull’esempio — l’anarchismo che fa appello alle energie di ciascuno — l’anarchia che tutto aspetta dalla libertà e dalla solidarietà liberamente ricercata ed accettata.
E non è questo solamente un sogno d’avvenire.
Tutta la storia sta a dimostrare che ogni progresso è stato il frutto della libera iniziativa e del libero accordo — e che l’imposizione non ha mai dato altro che frutti amari di schiavitù e di degenerazione.
[Cronaca Sovversiva, anno XI, n. 38 del 20/9/1913]
(*) Il 6 gennaio 1913, in questo piccolo paese della provincia di Latina, le forze dell’ordine agli ordini del governo Giolitti uccisero sette manifestanti che protestavano contro l’amministrazione comunale. Tra il 23 ed il 24 ottobre 1911, nell’oasi di Sciara Sciat, nei pressi di Tripoli, si era scatenata la rappresaglia delle truppe coloniali italiane contro l’insurrezione locale (non priva di tratti feroci) che aveva infranto il sogno giolittiano di una facile e pacifica conquista della Libia. Secondo la testimonianza di un giornalista italiano, a Sciara Sciat fu «un vero macello di arabi; è quasi del tutto spopolata, disseminata ormai quasi soltanto di cadaveri». Lo storico Angelo Del Boca parla di almeno 4000 arabi uccisi e di 3425 deportati in venticinque penitenziari italiani.