Fra dinamiche di riarmo, contrazioni protezioniste e corsa alle materie prime, uno sguardo al sistema globale in cui si imbastiscono progetti di guerra sempre più espliciti e si tenta di far fruttare persino l’inevitabile crisi ecologica
L’ennesimo capitolo dello scontro fra Stato Islamico, Arabia Saudita e Stati Uniti colpisce al cuore l’economia di Riad,ovvero le installazioni petrolifere di SAUDI ARAMCO. Sullo Stretto di Hormuz e nel Golfo Persico si intrecciano e le rivalità fra capitalismi e Stati rivali che ambiscono a rafforzarsi come potenze regionali e gli scontri fra blocchi capitalistici a livello mondiale (Russia, Cina, USA, UE e l’emergente e contraddittorio espansionismo britannico).
Il tutto, chiaramente, sullo sfondo della guerra per il controllo delle risorse energetiche mondiali (gasdotti, fonti di approvvigionamento, ecc.). Attualmente vi è una fortissima concentrazione militare nello Stretto di Hormuz: 120.000 uomini dei pasdaran; la marina militare statunitense con una portaerei e 75 velivoli imbarcati nell’Oceano Indiano, ha basi in Kuwait, Qatar, Emirati Arabi Uniti e nell’Oman, e dispone inoltre della Quinta Flotta con 30 navi da guerra. Stato francese e Stato britannico solcano permanentemente quelle acque: Londra, tesa verso la prospettiva dell’ empire 2.0 ha reinvestito nel porto di Mina Salman, in Bahrein. L’espansionismo francese nell’area, che in modo molto contraddittorio si veste degli interessi dell’autoritarismo europeo, ha forze permanenti negli Emirati Arabi ed ha in affitto una base navale e una base aerea ad Al-Dhafra, capace di “accogliere” ben più dei 40 jet imbarcabili sulla portaerei a propulsione nucleare Charles de Gaulle.
Lo Stretto di Hormuz è uno snodo fondamentale per il greggio mondiale: vi transita il 33% del traffico petrolifero globale. Se guardassimo a questi dati e avvenimenti con la lente d’ingrandimento del controllo delle fonti e dell’approvvigionamento di materie prime per il funzionamento dell’economia capitalistica, ci accorgeremmo che Pechino e Mosca continuano ad importare il petrolio persiano. La partita più grande in tal senso è giocata in realtà nella regione mesopotamica contesa fra gli interessi capitalistici occidentali e quelli del capitalismo regionale iraniano: l’Iraq controllato dalle fazioni religiose sciite ha bypassato le sanzioni imposte dagli USA allo Stato iraniano seguendo le modalità del “gas for food”; così, gli sfruttatori iraniani vendono alla ri-nascente borghesia irachena 9 miliardi di beni all’anno. Il negoziato fra i due Stati è volto alla creazione di un meccanismo finanziario (SPV) grazie al quale l’Iraq importerà gas ed energia elettrica dal vicino pagando in dinari iracheni, mentre la repubblica islamica potrà usare quei dinari solo per l’acquisto di beni “umanitari”: medicine, strumentazioni mediche, cibo. Il padronato UE ha invece elaborato un sistema commerciale e finanziario denominato INSTEX per commerciare con Teheran scavalcando le decisioni britanniche e di Trump (ecco evidente la differenza totale di posizioni e di interessi con lo Stato yankee e quello britannico nella crisi dello Stretto di Hormuz).
Il territorio mesopotamico è tra quelli più ricchi di petrolio al mondo e sta risalendo la china. Eppure, anzi, chiaramente, l’energia per la popolazione manca. Voglio ora riportare una nota positiva per la nostra classe, quella degli sfruttati: da giugno sono riprese le manifestazioni di protesta a Bassora (Iraq). I continui black out combinati a disoccupazione e servizi quasi inesistenti hanno riacceso la fiamma: proteste di piazza e la polizia che disperde la folla anche ricorrendo a proiettili. Lo scorso anno vi furono 14 morti e 1000 arresti e il venerdì è tornato, come nel 2018, ad essere giorno di mobilitazione popolare. Le mobilitazioni create spontaneamente dalla popolazione vivono un tentativo di egemonizzazione da parte di comitati legati a formazioni istituzionali sadriste (sotto la leadership di Muqtada al-Sadr) e comuniste istituzionali (cioè la strana lista che nel maggio 2018 vinse le elezioni a Baghdad). Bassora si mantiene indipendente, con attivisti riuniti in comitati locali autorganizzati che stanno realizzando scioperi come quelli dello scorso anno, che portarono ad interrompere le attività delle compagnie petrolifere.
Pericolose guerre mondiali sono in corso da anni, ad esempio in Libia e in Siria. Conflitti dove si mescolano le forme della contro-insurrezione con quelle della guerra civile e della “grande guerra” combattuta su scala planetaria dalle superpotenze capitaliste. In Siria l’offensiva russo-governativa su Idilib della scorsa estate ha causato più di 600 vittime. Questa città e la sua provincia, così come la periferia della città di Hama, sono le ultime zone in territorio siriano sotto il controllo dell’opposizione anti-governativa; due milioni di sfollati interni sono quel che resta della primavera siriana.
Una piccola e pericolosa guerra mondiale viene combattuta in Libia. Lo Stato arabo-saudita, il capitalismo petrolifero degli Emirati, la superpotenza capitalista statunitense e lo Stato Israeliano sono punte di lancia contro l’espansionismo regionale sciita e dei suoi alleati. Al Sarraj in Tripolitania è a sua volta appoggiato dal progetto neo-ottomano di Erdogan, mentre Haftar riceve armi dai capitalisti francesi che puntano a garantire ed espandere le concessioni riservate, ad esempio, alla Total. All’interno della situazione libica si intrecciano e si scontrano le contraddizioni degli Stati europei, divisi fra interessi economici e geopolitici più legati a una sfera nazionale ma accomunati in un ulteriore livello di interessi dalle mire dei dominatori UE. Che la situazione geopolitica internazionale stia correndo velocemente verso il baratro della guerra totale è evidente e sotto gli occhi di tutti. Ci troviamo dinanzi ad una realtà difficilmente immaginabile anni fa, o quasi. Diciamo ‘quasi’ perché conoscendo la meccanica del Capitale e dell’Autorità, sappiamo purtroppo che la guerra totale è come la guerra permanente: intrinseca a questo mondo.
Il riarmo procede spedito mentre mutano e si ridefiniscono lentamente i rapporti di forza fra Stati. La scorsa estate gli oppressori yankee si sono ritirati facilmente dal trattato sui missili nucleari a raggio intermedio, stilato nel 1987. Nuovi armamenti nucleari vengono sperimentati e testati. Nuovi missili nucleari a stelle e strisce saranno schierati in Romania e in Polonia contro l’espansionismo russo, in Sud-Corea in funzione anti-Pechino: “è l’inizio di una nuova corsa agli armamenti”, ha ammonito Geng Shang, portavoce del ministro egli Esteri della Repubblica Popolare Cinese. Nell’ottica della nuova strategia mondiale del padronato d’Oltreoceano, mentre perde d’importanza l’Europa, cresce l’interesse per l’accaparramento delle materie prime in Africa, per l’America Latina e per l’area del Pacifico. Tutto questo nel tentativo di “contenere” il nemico cinese ed i suoi obiettivi. La manovra di accerchiamento verso la “Cina popolare” parte dal neo-stipulato partenariato militare con il capitalismo indiano e col rafforzamento dei marines in terra australiana. In questa macro-area geografica il padronato australiano mira a un maggior attivismo contro il dominio del Dragone costruendosi un proprio arsenale nucleare ed uscendo dal “Trattato di non proliferazione”.
Il riarmo generale prosegue anche nello spazio circumterrestre: è del 14 luglio l’annuncio di Macron di creare una “Forza Militare Spaziale” con un primo stanziamento di 3,6 miliardi di euro. Nel febbraio 2019 Trump ha invece firmato una direttiva che istituisce lo “US Space Force”. Siamo ben coscienti che ogni Stato si costruisce sulla moneta e sulla spada: la guerra commerciale (che mostra il suo momento più evidente in quella che viene definita la “guerra dei dazi”) così, è l’altra faccia della medaglia della guerra combattuta sui campi di battaglia. Ogni conflitto mondiale ha avuto sempre come preludio conflitti minori per la ripartizione dei mercati e dei territori, e scontri economico-commerciali si sono sempre accompagnati a crisi del Capitale a livello globale. Così è avvenuto prima della grande guerra, così prima del secondo conflitto mondiale e così sta avvenendo oggi. Non stiamo sostenendo, chiaramente, che si tratti di una mera dinamica di interessi materiali: a questa va aggiunta e considerata con la massima importanza la volontà di dominio degli individui e delle classi privilegiate di ogni Stato, e l’insita meccanica della sopraffazione e della guerra (interna ed esterna) propria di ogni costruzione statale. Al G7 della scorsa estate il presidente Trump ha affermato che potrebbe dichiarare l’emergenza nazionale per l’escalation della guerra commerciale fra USA e Cina. Questo è un ulteriore tassello nella comprensione di come l’aspetto economico e quello militare siano due sfere complementari. Il conflitto commerciale (e non solo) fra Stati è una dinamica ancora più lampante ed evidente nel momento in cui da un ciclo liberista del Capitale, ci si appresta molto probabilmente ad entrare in un nuovo ciclo protezionista.
Raggruppamento di Stati e di capitalismi fino al secolo scorso nemici fra loro (ed attualmente “rivali”), l’UE non riesce a trovare una sinergia d’intenti e di interessi fra le varie borghesie nazionali, e gli sfruttatori di casa nostra sono lacerati al loro interno da numerose contraddizioni e da spinte centrifughe che minano l’intero progetto di realizzare un super-Stato europeo. All’inizio del mese di settembre di quest’anno, dietro lo scontro fra banchieri centrali era in gioco la futura politica monetaria e di difesa dell’UE. Il presidente della BCE Mario Draghi ha deciso di tassare sempre di più i depositi non investiti delle banche centrali e di intervenire nell’acquisto di titoli praticamente all’infinito. Queste ultime mosse sono state drastiche. L’invito implicito (ma è anche una necessità) è rivolto ad una cooperazione più stretta fra banca centrale e governi nazionali: la prima tiene i tassi a zero, mentre i secondi possono approfittarne per lanciare progetti comuni di investimento a debito su ambiente, ricerca, difesa e infrastrutture. In questo solco prosegue a tentoni l’iter per la costituzione della futura Difesa Comune. Il 18 aprile 2019 il Parlamento dell’Ue ha approvato la creazione del Fondo Europeo per la Difesa, dotato di 13 miliardi di euro. Molti fattori, per lor signori, richiederebbero un rafforzamento dell’Unione: la fine della centralità ideologica e strategica dell’Europa, lo scivolamento geopolitico del capitalismo USA verso l’Asia tale per cui, come viene sostenuto in alcune cancellerie europee, “Il soldato Ryan non tornerà mai più”. Ben presto nessuno Stato UE preso singolarmente avrà la capacità di entrare in un teatro di guerra. In ottica neo-colonialista, verso il continente africano è stato istituito lo ‘strumento europeo per la pace’ (EPF), che dispone di 10,5 miliardi fondi e che serve per sostenere le iniziative dei paesi “collaborazionisti” o sotto l’influenza UE in Africa (con somme disponibili fino al 2021).
Nel frattempo c’è grosso fermento fra i colossi di morte europei, con una domanda alla base della linea strategica che impronta il futuro del vecchio continente alla ricerca e alla realizzazione di nuovi sistemi d’arma: l’accesso al Fondo per la Difesa sarà riservato solo alle imprese europee, come vorrebbero gli sfruttatori francesi? O sarà aperto a tutti come raccomandano i liberal olandesi, i socialisti tedeschi, i dirigenti polacchi e i capitalisti USA che hanno già minacciato l’UE di ritorsioni nel caso in cui le loro aziende fossero escluse dal mercato? Intanto viene discussa la possibile estensione della garanzia dell’ombrello nucleare francese. Il mondo viene spinto a ritmo frenetico verso il baratro con lo spettro della guerra totale e del disastro climatico; ormai la prospettiva è la distruzione totale del pianeta in cui viviamo. Non vogliamo entrare nel merito della questione cosiddetta “green” e di come questa sia l’attuale e la prossima frontiera del Capitale. Vogliamo però mostrare brevemente come anche il disastro climatico (che secoli di sfruttamento hanno causato alla terra) possa essere in modo terrificante ulteriormente messo a profitto dal Potere.
Distruzione del pianeta, sfruttamento e guerra viaggiano a braccetto. È interessante guardare con attenzione a quello che è avvenuto nei mesi estivi riguardo la situazione groenlandese: l’isola, già in posizione strategica, “grazie” al surriscaldamento globale è divenuta appetibile per le risorse naturali di cui è ricca. Il disgelo renderà infatti possibile lo sfruttamento di tutte le ricchezze sepolte nell’Artico: petrolio, gas, minerali preziosi; e questo è uno dei motivi per cui il progressivo arretramento dei ghiacci è considerato in alcuni ambienti un’occasione da cogliere piuttosto che una minaccia incombente sulla sorte del nostro pianeta. La Groenlandia è ufficialmente una colonia della Corona danese (quindi all’interno dell’UE). Militarmente parlando sull’isola esistono già due installazioni militari statunitensi. Contemporaneamente alla richiesta di Trump di acquistare l’isola, anche i burocrati di Pechino hanno formulato la medesima richiesta. La questione climatica non è e non può essere un pretesto di sviluppo per l’economia capitalistica, né una problematica interclassista. Le responsabilità di quello che sta avvenendo sono chiare e sono dei privilegiati e della classe dominante. Anche la distruzione della Terra, come la guerra totale, colpirà sempre di più, e prima, gli oppressi. È evidente e sotto gli occhi di tutti che saranno i più poveri a subire i danni causati dai più ricchi, e che i mutamenti climatici in atto travolgeranno soprattutto chi ha meno contribuito. Scarsità di cibo, di acqua e di luoghi sicuri in cui vivere; migrazioni proletarie di massa e vie di fuga che solo gli sfruttatori potranno permettersi.