Recensione del libro “Come cavalli che dormono in piedi” di Paolo Rumiz

Come cavalli che dormono in piedi - Paolo Rumiz - Feltrinelli Editore

È notizia di ieri sera, 10 aprile, che in Slovenia c’è stato un “colpo di Stato” democratico e politico ai vertici del governo. Il primo ministro sloveno Janez Janša ha preso pieni poteri assieme ai suoi uomini di fiducia e di estrema destra. Ha costituito un’unità di crisi che sarà al suo comando per gestire l’emergenza del coronavirus. Allo stesso tempo ha dichiarato che non intende fare un passo indietro nel rafforzamento militare del confine con la Croazia, nonostante il parlamento fosse contrario. L’Assemblea nazionale ha votato a favore della proposta, ma senza la maggioranza dei tre quarti, necessaria per assegnare all’esercito competenze maggiori di quelle attuali, in base all’articolo 37 della legge slovena sulla difesa.

Ci si potrebbe chiedere cosa c’entrino queste notizie della repubblica vicina ai nostri confini dell’Est con il libro di Paolo Rumiz “Come cavalli che dormono in piedi”, che vogliamo recensire qui oggi, in piena emergenza sanitaria, politica, economica, umana. Ebbene, nel cuore dell’Europa che litiga per come smazzare miliardi di euro che arriveranno solo a chi i soldi ce li ha già, e non ai veri bisognosi, ecco che sui confini dell’odio perenne tra Stati si parla ancora di schierare eserciti sui confini che oggi fanno eco alle battaglie di oltre un secolo fa.
Rumiz, nella sua scrittura che coinvolge, racconta i suoi viaggi nell’Europa dei cimiteri perduti della Galizia e dei Carpazi dove ignoti uomini sono sepolti, uomini che si sono massacrati per riempire le tasche agli industriali, alla classe dei ricchi e paffuti, gli stessi che oggi possono accedere alle visite mediche private che non tutti si possono permettere.
Dalle sue parole emergono costantemente ragionamenti che risulteranno ruvidi a coloro che, rispetto alla Prima guerra mondiale, si fanno tronfi di orgoglio nazionale, di parole come patria ed onore e di tutta la retorica militarista che, oggi come oggi, nessuno ricorda più cosa voglia dire – se non in certi momenti. Ma ogni battaglia, anche quella di oggi contro il virus, diventa pretesto per riaccendere gli odi, l’attrito tra popoli che invece di unirsi contro la classe che affama, ammala, uccide come nelle trincee del ’14-’18, si irrigidiscono, accettano lo stendardo della patria di appartenenza come vessillo e non riescono a percepire cosa stia dietro i racconti che, tramite le parole del Rumiz, emergono dalle storie degli uomini che disertavano, che lottavano, dalle donne triestine che cantavano “S’accende la fiamma, la fiamma dell’amor / quando vedo un disertor scampar”.
Ma quello che noi rimproveriamo principalmente al Rumiz non è il suo racconto in sé, perché è evidente che cerchi di far comprendere come le storie degli uomini dei confini dell’Est erano e siano intrecciate a storie simili in ogni dove: dagli aneddoti di quelli che si son combattuti da una parte all’altra del fronte e che fraternizzavano scambiandosi cibo, raccontando le loro esperienze, giocando a carte per decidere chi doveva essere imprigionato per non stare più sul campo di battaglia, insomma quegli infiniti stratagemmi per scappare alle bombe e alle fucilazioni. Quello che a noi non va giù è il suo costante richiamo all’Europa.
Non all’Europa delle persone semplici che soffrono per i disastri dei propri politici e padroni, persone purtroppo inebetite dalla vita occidentale e capitalistica, ma all’Europa intesa come Unione Europea, del governo europeo che a suo avviso “ingenuamente” non si rende conto delle cicatrici antiche che derivano da quella maledetta guerra che tanti padri, fratelli, compagni ha strappato alla vita.
Il Rumiz crede ancora in un sistema sociale quale l’attuale democrazia europea. Fare appello, anche se non in modo esplicito, a quegli enti governativi, a quei governanti delle nostre vite che incrementano gli armamenti, rafforzano i confini, generano disastri umani come quelli in corso nelle isole greche con gli immigrati o nelle carceri, alla politica d’interesse e sfruttamento in Libia o altri luoghi, alle porcherie fatte in Mali e Niger, per noi è come minimo sviante ed errato.
Di che Europa ci parla il Rumiz? Se troviamo sincere le sue parole contro il massacro avvenuto un secolo fa, fare allo stesso tempo appello ai massacratori di oggi è alquanto ipocrita o è comunque un modo di far ragionare che rasenta la cecità. Non ci facciamo condizionare dal suo miele critico a posteriori se non viene rinnovato con un’attuale critica antimilitarista dell’oggi, severa ed inesorabile. Sia contro le guerre che lui stesso ha osservato come inviato di guerra, sia contro la guerra di classe che viene perpetrata ogni giorno nelle strade del suo paese. Perché se è vero che quelle storie che lui racconta sono presenti negli attriti odierni, come nel libro emerge per la situazione attuale di Bosnia e Ucraina, anche le cause di quelle vicende sono vive e vegete tutt’oggi sono anzi molto più sottili, pervasive, arroganti di ieri. Oggi emerge un individualismo egoista che fa sì che sia sempre più difficile riconoscersi tra esclusi e dare un nome e un indirizzo ai mali di questa società.
Questo è tempo di parteggiare per una parte o l’altra della barricata, il mezzo non è contemplabile. O con gli sfruttati o con i padroni (lui è giornalista de La Repubblica, giornale noto per essere a servizio dei padroni del centro-sinistra, per chi non lo sapesse), o con la libertà o con l’oppressione che oggi è invadente come non mai, e che in futuro mostrerà altre sue nuove peculiarità.
Il libro lo consigliamo come lettura per scoprire storie difficili da trovare anche sui libri di storia ufficiali e non, ma le sirene della vecchia (e nuova) Europa non giungono alle nostre orecchie.


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