L’obiettore

Tratto da finimondo.org

Roger Martin du Gard

 La città era calma: di una calma tragica. Le nubi che da mezzogiorno s’andavano accavallando, formavano una scura coltre che immergeva la capitale in una specie di crepuscolo. I caffè, i negozi avevano acceso; e la luce che proiettavano attraversava di strisce livide le strade semi buie, dove la folla, privata dei mezzi di trasporto, si pigiava, inquieta e frettolosa. Gli ingressi della metropolitana traboccavano sino ai marciapiedi di gente in attesa sui gradini.

Rinunziando ad aspettare, Jacques e Jenny raggiunsero a piedi la riva destra.
Ad ogni cantonata, strilloni di giornali: le edizioni straordinarie venivano strappate di mano, scorse con avidità. Ognuno suo malgrado vi cercava ostinatamente la grande notizia: che tutto s’era aggiustato; che, rinsaviti, i governanti avevano di comune accordo trovato una soluzione pacifica; che l’assurdo incubo s’era finalmente dissipato.
All’Humanité, da che era stata decretata la mobilitazione, non si vedeva più nessuno; come, del resto, dappertutto. Ognuno, si sarebbe detto, trovava più solo il tempo di pensare ai casi propri. L’ingresso, le scale, deserti. Dall”unico usciere di servizio nel corridoio, Jacques seppe che Stefany non s’era ancora vista; e che Gallot, di turno al giornale, non riceveva nessuno, avendo da preparare il numero dell’indomani. Jacques non insistette.
«Andiamo al Progrés» disse a Jenny; ed uscì con la ragazza che, stanca morta, lo seguiva come la sua ombra.
A pianterreno, nessuno; neppure il proprietario; sola alla cassa, la moglie; aveva gli occhi rossi di pianto; non diede segno di vederli.
Salirono al mezzanino.
Un tavolo solo occupato: tutti giovani che Jacques non conosceva. Fatta sedere Jenny vicino all’ingresso, Jacques scese a prendersi una mezza bottiglia di birra: aveva sete.
«E che altro vuoi, imbecille? Aspettare che ti vengano a prendere i gendarmi? Farti mettere al muro come un cretino?». Chi parlava era un giovanotto sui venticinque, scuro di pelle, il berretto buttato sulla nuca. Il tono era aggressivo e lo sguardo, con cui andava da viso a viso, duro. «E poi vuoi che ti dica?» riprese con crescente irritazione. «Per noi, per quelli che come noi han seguito da vicino come sono andate le cose, un fatto è sicuro, che basta da solo: noi apparteniamo ad un paese che la guerra non la voleva e che non ha nulla da rimproverarsi!».
«Questo, sì, lo dicono tutti» ammise il più anziano della compagnia: un uomo sulla quarantina, che vestiva la divisa d’impiegato al metrò. «I tedeschi, questo, non lo possono dire! La pace dipendeva da loro. Dieci volte, in questi ultimi giorni, hanno avuto l’occasione di sbarrar la strada alla guerra!».
«Anche noi! avremmo potuto dire chiaro “merda” alla Russia!».
«Questo, non sarebbe servito a nulla! Vediamo bene, oggi in che sporco modo i tedeschi avevano montato il colpo! L’han voluta? Ebbene, la paghino! La Francia è attaccata: ha il dovere di difendersi! E la Francia sei tu, sono io, siamo tutti!».
Meno l’impiegato al metrò, tutti parevano consentire.
Jacques rivolse a Jenny un’occhiata piena di sconforto. Ricordava le parole di Studler, il suo sguardo che accattava comprensione: « lo ho bisogno di credere alla colpevolezza della Germania!». Già quel bisogno stava diventando generale.
Senza bere la birra che s’era versata, fece segno alla ragazza e s’alzò. Ma prima d’andarsene s’avvicinò al gruppo:
«La guerra difensiva, la guerra legittima, la guerra giusta!… Non vi accorgete dunque che è sempre la solita trappola? Anche voialtri ci cadete. Non sono tre ore che la mobilitazione è stata decretata, ed ecco a che punto di cecità siete già arrivati! Chi resisterà a questa ventata di pazzia, se voi socialisti siete tra i primi a mollare?».
Parlando, non si rivolgeva in particolare a nessuno; ma ad uno ad uno li guardava tutti; e le labbra gli tremavano. Il più giovane, un garzone di panettiere, da com’era infarinato, alzando il viso di Pierrot:
«lo la penso come Chataignier» disse, calmo. «Devo partire domani, io… Detesto la guerra; ma sono francese; il mio paese è attaccato. Mi chiamano, e io vado. Parto con la morte nell’anima, ma parto!».
E il suo vicino: «Anch’io la penso così. Il mio giorno è martedì. Sono di Bar-le-Duc… Non avrei alcun piacere che il paese dove son nato diventasse territorio tedesco».
Ascoltando, Jacques, tra sé: «Come questi, i nove decimi dei francesi! Unicamente preoccupati di assolvere il loro paese d’ogni colpa! E a questo non s’aggiungerà, in questa gioventù, una certa torbida compiacenza di sentirsi improvvisamente parte d’una comunità oltraggiata, di respirare l’aria ubriacante d’un rancore collettivo?». Nulla era mutato dal tempo in cui il cardinale Retz ardiva scrivere: « Il n’est rien de si grande conséquence dans les peuples, que de leur faire paroître, même quand l’on attaque, que l’on ne songe qu’à se défendre ».
«Pensateci bene!» riprese con voce sorda. «Se mollate domani sarà troppo tardi. Non capite che quel che accade qui, accade punto per punto anche in Germania? Le stesse esplosioni d’ira, la montatura di notizie false, di false accuse, gli stessi antagonismi… Non capite che tra noi e la Germania si sta ripetendo in grande la scena, né più né meno, cui tutti i giorni assistete per strada; dei due monelli che, con gli occhi fuori della testa, si buttano l’uno sull’altro per poi darsi a vicenda la colpa: “È stato lui a cominciare!”».
«Sia; ma allora, secondo te, che devo fare io, precettato?».
«Che devi fare? Se pensi che la violenza non può essere giustizia, che la vita umana è sacra, se pensi che di morali non ve ne possono essere due: una, in tempo di pace, che ti manda in galera se uccidi; l’altra, in tempo di guerra, che ti impone di uccidere, rifiutati di partire! Tieni fede a te stesso! All’Internazionale!».
Jenny, ch’era rimasta in disparte, vedendo che si accalorava, istintivamente lo raggiunse.
Il garzone panettiere s’era alzato e incrociando le braccia:
«Per farmi mettere al muro? No, ma di’, vieni fuori con delle belle!… Almeno, al fronte, ognuno corre il suo rischio; se non è proprio scalognato, può portar via la pelle!».
Jacques, alzando la voce:
« Ma non sentite che è da vili svestirsi della propria responsabilità per rimetterla nelle mani di chi è più forte? Voi dite: “Disapprovo, ma non ci posso far niente”. Obbedire, sottomettervi vi costa; ma tacitate con poca spesa la vostra coscienza col dirvi che la vostra sottomissione è penosa e meritoria… Non v’accorgete dunque di essere vittime d’un giochetto criminale? Vi siete scordati che i governi non ci sono per asservire i popoli e mandarli al macello; ma per servirli, proteggerli e renderli felici?».
Un moro, sui trenta, battendo il pugno sul tavolo:
«No e no! Non hai ragione… Dio sa se son mai andato d’accordo col governo. Sono socialista al pari di te. Ebbene, io son pronto a battermi per il governo, come ogni altro!».
Jacques fece per parlare, ma quello non lo lasciò:
«E questo non ha nulla da vedere con le mie convinzioni! Con i nazionalisti, con i capitalisti, con tutti i capoccioni, ci ritroveremo dopo! e regoleremo i conti, se te lo dico, puoi star certo. Ma in questo momento, non si tratta di pensarla in un modo o in un altro. Il primo conto da regolare è con i tedeschi! Sono stati quei porci lì, a volere la guerra! L’avranno! E ti dico: per quel che dipende da me, d’averla voluta s’avranno a pentire!».
A Jacques caddero le braccia. Fece spallucce e presa per il braccio Jenny si diresse alla scaletta.
«E con tutto questo, evviva la Sociale! » una voce alle loro spalle.
Procedettero per un tratto in silenzio. Sordi brontolii annunziavano imminente un temporale.
«Vede» disse Jacques. «Ho creduto, ripetuto tante volte, che le guerre non nascono da motivi sentimentali; che sono effetto unicamente di cause economiche. Ebbene, oggi, a vedere con che spontaneità la frenesia nazionalista si propaga in tutti i ceti indistintamente, arrivo quasi a chiedermi… se le guerre non sarebbero piuttosto il risultato d’un oscuro conflitto di irrefrenabili passioni, al quale il cozzo d’interesse servirebbe solo d’occasione, di pretesto…». E dopo una pausa, sempre come pensando ad alta voce: «E la peggiore derisione è la preoccupazione che essi hanno, non solo di giustificarsi, ma di proclamare ben alto che il loro consenso è ragionato e “libero”. Sì, libero! Tutti questi disgraziati, che ieri ancora lottavano accanitamente per tener lontana la guerra, oggi che vi si trovano dentro, a niente tengono quanto ad aver l’aria di agire di loro spontanea volontà!».
E dopo una pausa: «Tragico, poi, il fatto, che tanti uomini di buon fiuto, diffidenti, possono diventare da un momento all’altro creduli a tal punto, non appena si fa vibrare la corda patriottica! Forse dipende semplicemente da questo: che l’uomo medio s’identifica ingenuamente con la patria, con la nazione cui appartiene, con lo Stato… L’abitudine di dire “noi francesi…”, “noi tedeschi…”. E visto che ogni cittadino, preso a sé, desidera sinceramente la pace, gli è impossibile ammettere che lo Stato, che lo rappresenta, voglia la guerra. Dal che verrebbe di concludere: più il singolo è amante della pace, più è portato a discolpare il proprio paese; e più facile diventa convincerlo che la minaccia della guerra viene dall’esterno, che il governo non è responsabile, che lui fa parte d’una collettività iniquamente minacciata e che ha il dovere di difendersi con il difenderla…».
Goccioloni di pioggia lo interruppero. Attraversavano in quel momento place de la Bourse. «Corriamo, se no ci si infradicia…».
Fecero appena in tempo a ripararsi sotto i portici di rue des Colonnes. Il temporale, che tutto il giorno aveva pesato sulla città, scoppiava con inaudita violenza. I lampi si susseguivano senza respiro, sferzando i nervi; e il rullare incessante del tuono si ripercuoteva tra i palazzi con un fragore che ricordava i temporali in montagna.
« Andiamo a rifugiarci là» propose Jacques, indicando in fondo al portici una trattoria male illuminata e già invasa di gente.
«In attesa che passi, mangeremo un boccone».
[I Thibault, Estate 1914]

 


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