Difficile farsi un’idea precisa di quanto sta accadendo in Egitto. Certo non si può parlare, come è stato fatto, di rivoluzione, se per rivoluzione s’intende una profonda trasformazione dei rapporti sociali, ma nemmeno se ci si ferma alla sua accezione politica e “borghese”, cioè alla modifica radicale degli assetti istituzionali e delle forme del potere. Il “governo di transizione” è costituito dal personale di Mubarak, benché quest’ultimo sia stato costretto ad andarsene. Aggiungiamo poi che la “transizione verso la democrazia” è garantita dall’esercito, il quale ha sospeso la costituzione in vista di nuove elezioni, promettendo di abrogare solo alcune delle norme costituzionali più odiate. L’elogio espresso da Barak Obama – un elogio obtorto collo, visto il costante appoggio politico e militare fornito negli anni dagli Stati Uniti al regime di Mubarak – significa che la nuova eletta dominante non spiace al capitale internazionale. I vertici dell’esercito hanno minacciato a più riprese l’uso del pugno di ferro se non cessano gli scioperi che paralizzano l’industria e il turismo, il che significa che la situazione è ben lungi dall’essere pacificata. Mubarak o qualcun altro, le condizioni di miseria sono le stesse – senza contare che l’ebbrezza della rivolta e della libertà non si dimentica in fretta. Ma facciamo un passo indietro. Abbiamo visto diverse immagini di insorti che accoglievano fraternamente l’arrivo dei soldati nelle piazze. Per capirle, bisogna tener presente alcuni elementi. L’esercito egiziano è formato in buona parte da militari di leva, molti dei quali poverissimi, che fraternizzavano effettivamente con la popolazione. L’organo repressivo più odiato – in quanto gruppo di schierani di Mubarak – era la polizia, per il cumulo di violenze, esazioni, torture e corruzione che ne ha contraddistinto la storia. La differenza tra il soldato medio e il poliziotto medio ci è stata raccontata anche da chi ha partecipato alle carovane internazionali in solidarietà con la Palestina ed è stato bloccato al confine egiziano. Il soldato ha le scarpe rotte e s’identifica più con il palestinese dei territori occupati che non con il militare occupante, mentre il poliziotto è un privilegiato, cieco e brutale esecutore di qualsiasi ordine. Se i vertici dell’esercito egiziano, durante le giornate del Cairo, avessero ordinato di far fuoco sulla folla, non solo avrebbero detto addio a qualsiasi ipotesi di “transizione di potere” fuori da un golpe sanguinario, ma avrebbero spinto molti soldati di leva a passare, armi e bagagli, dall’altro lato della barricata. Il vero volto dell’esercito – di ogni esercito – non tarderà a manifestarsi contro scioperanti e ribelli, cioè contro quei poveri che si dimostreranno ingrati nei confronti del nuovo capitalismo democratico. In un’intervista recente, un compagno di un gruppo anarco-comunista del Cairo raccontava che i comitati di quartieri nati per difendersi dalla polizia pubblica e segreta di Mubarak stanno assumendo, su impulso delle minoranze rivoluzionarie, la forma di Consigli di lavoratori. Anche qui, difficile capire cosa tutto ciò voglia dire concretamente. Una certa forma organizzativa, se suggerisce il grado di autonomia della popolazione, non dice quali sono i contenuti reali dello scontro sociale in corso. La sua importanza, avrebbe detto il filosofo, è per il momento la sua stessa esistenza in atto. Ciò che sappiamo, invece, è che la rivolta si è estesa anche alla Libia, dove gli insorti stanno affrontando la repressione assassina da parte dalle truppe di Gheddafi. Possiamo dire che gli insorti del Mediterraneo stanno indebolendo i nostri stessi padroni. E che sarebbe per lo meno educato cominciare a ricambiare il favore.
Marzo 8, 2011
Egitto: tra esercito e libertà
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