Tratto da finimondo.org
Maurienne
Figlio di un ufficiale riservista dell’esercito francese, Jean-Louis Hurst (1935-2014) lasciò da bambino un’Algeria in cui aveva trascorso alcuni mesi della sua infanzia. Ma l’Algeria non lo lasciò mai, entrandogli nel cuore e segnando tutta la sua vita.
Dopo un viaggio in Medio Oriente che gli fa scoprire la causa palestinese e gli orrori del colonialismo, a venti anni Hurst viene chiamato sotto le armi. Egli obbedisce, anche per seguire la linea del partito comunista di cui è militante, secondo le cui indicazioni bisogna infiltrarsi nell’esercito per svolgervi un lavoro politico dall’interno. Ma lo scoppio della guerra d’Algeria lo travolge: da un lato l’amore per la sua terra d’elezione, dall’altra gli ordini dello Stato e del Comitato Centrale, concordi nel ritenere la strategia superiore ad ogni scrupolo di coscienza. Hurst sceglie, fugge all’estero e nel 1960 pubblica sotto lo pseudonimo di Maurienne il romanzo Il Disertore, autentico manifesto contro il colonialismo. È uno scandalo, il libro sarà proibito e sequestrato dalle autorità francesi che condanneranno autore ed editore per «incitamento alla disobbedienza militare».
Quando arrivai in caserma, ero quasi allegro. Avevo bisogno di cambiare aria: per due anni avevo insegnato in un piccolo villaggio sperduto, e soffrivo di guai sentimentali. La nuova vita mi avrebbe rimesso in sesto.
Nei primi due mesi approfittai di quella tranquillità e non pensai a nulla. Poi mi designarono a un corso di teletipia. Gli specialisti sono molto ricercati nell’Africa Francese del Nord. Ci fecero notare che in breve tempo potevamo diventare tecnici scelti. Fu allora che ripensai alla guerra. C’era qualcosa di strano nell’atmosfera di quella caserma (come di tutte quelle che abbiamo conosciute). Tutti i corsi che seguivamo ci riportavano all’idea della guerra: «Una volta in Algeria, dovrete darci dentro… In AFN dovrete tirare così… battere così… Vi chiederanno sessanta parole al minuto…». Ma che razza di guerra era mai quella — una specie di spedizione lontana, straniera, astratta — se perfino noi, chiamati a farla, ne parlavamo così poco? Parlavamo di tutto: Brigitte Bardot, le «24 ore» di Le Mans, Cape Canaveral, Fidel Castro. Della guerra, quasi mai.
Ricordo le serate nella nostra immensa camerata, in cui erano allineate due file di brande; fra le brande, una stretta corsia dove piccoli gruppi giocavano a carte o discutevano. Il mio passatempo preferito consisteva nel passare da un gruppo all’altro, ascoltare, dir la mia e allontanarmi. L’ho fatto mille volte. Si discuteva soprattutto sui permessi di 36 ore, sulla cella di rigore, sulla possibilità di restare consegnati tutta la settimana. Due o tre volte provai a parlare di Palestro o di Robert Lacoste. Mi ascoltavano in silenzio. E quando veniva una risposta:
— Lasciaci in pace, vecchio, con la tua politica! Quando saremo laggiù, si vedrà. Per ora si ha bene il diritto di far due chiacchiere.
Mi dicevo: «Hanno ragione. Smettila con le tue cornute idee che non fanno altro che complicarti l’esistenza! Non è colpa tua, in fin dei conti, se c’è la guerra… Loro sono più savi. Sanno che li aspetta il peggio e preferiscono approfittare del buon tempo. Tutto qui. Le tue sono parole al vento».
Certi giorni, non sapevo proprio più cosa pensare. Mi sentivo molto solo.
Poi, una sera, nella sala di riposo, scoprii Alain e Bernard. Erano due ragazzi della mia squadra con i quali non avevo mai parlato. C’era anche un anziano, di ritorno dall’Algeria. Aveva bevuto molto e si aggrappava al banco: il berretto strappato e bisunto, un enorme baccante alla «Brassens», notevolmente in disordine, ma con la medaglia bene in evidenza.
Urlava:
— Gli do addosso col calcio del fucile… proprio alla nuca, da spaccarlo in due… E continuo a dargliele finché crepa!…
Niente bello, da vedere… parola!
Eravamo una decina intorno a un tavolo. Uno, Alain, disse, riferendosi all’anziano:
— Sono sicuro che quello là s’ubriaca per dimenticare.
Un «piede nero» (così sono denominati gli algerini arruolati nell’esercito francese) di Orano chiese arcigno:
— Dimenticare che cosa?
L’altro, con un sorriso agli angoli della bocca:
— Perché, non sai quel che ci fanno fare laggiù, tu che vieni di là?
— Si fa la guerra, vecchio mio; ti dà fastidio?
— Mio padre e mio nonno l’hanno fatta — disse Alain — ma era una cosa un po’ più pulita.
— Dove l’hai letto che esistono guerre pulite?
— Non ho mai letto che l’esercito francese, nelle ultime guerre, se la prendeva coi civili e torturava!
Era la prima volta che si parlava di questo nella squadra. Chi aveva pronunciato quella frase era un bravo ragazzo, assai gentile, con la barba. Spesso lo vedevo andare su e giù per il cortile della caserma con una vecchia chitarra — cantava canzoni di Jacques Brel — e non mi pareva un tipo molto serio.
Ma nei giorni di ramazza era il solo che pensasse un po’ agli altri e facesse tutte le corvée della giornata. Alain sapeva quel che diceva. Citava il documento di Jean Müller e Testimonianze di richiamati, pubblicati da poco. Raccontò anche d’un suo amico di servizio in Algeria:
— È un seminarista. Un giorno ha detto al suo comandante che disapprovava la tortura praticata dalla compagnia. E adesso, per punizione, è lui che gira il magnete. Bene, padroni di non credermi, mi ha scritto che non gli dà più nessun fastidio. Tutta questione d’abitudine!
Molti non avevano mai sentito parlare di queste cose. Tutti si misero a discutere contemporaneamente. La maggior parte pensava che non c’erano prove che ciò fosse vero; tutt’al più doveva trattarsi di casi isolati, e che essi, comunque, non avrebbero mai accettato di farlo: non bisognava, dunque, drammatizzare.
Il «piede nero» era di diversa opinione:
— Beh, a me dispiace che non ci siano più torture! Voi non li conoscete, quei porci: con loro non c’è altro linguaggio.
Ognuno volle aprir bocca, con aria di intenditore. Accanto a me, un piccolo controllore delle PTT, pallido e pustoloso, intervenne a sua volta:
— Non dico d’essere per la tortura e tutto il resto, ma davanti alle atrocità dei fellaga, è giustificato.
— Benissimo!
Tutti approvarono calorosamente. Nel gruppo c’era anche Bernard, uno studente in legge, un tipo aperto e divertente come pochi. Salì sulla sedia. Ci aspettavamo una nuova battuta e alcuni già sghignazzavano. Ma disse soltanto:
— Se i fellaga fanno del terrorismo, non è una buona ragione perché la Francia, una nazione civile, cada nella trappola d’un ritorno alla barbarie.
Bernard tornò a sedersi nel più completo silenzio. Gli chiesi:
— Tu critichi la forma; ma sei d’accordo con gli scopi della guerra; coi nostri scopi, cioè?
— Che vuoi dire?
— Credi che la Francia abbia ragione di fare questa guerra?
— E tu, cosa pensi?
— Io la vedo così: c’è un popolo che noi opprimiamo dal 1830. Questo popolo chiede la libertà. E poi, ci fa notare: «Siete voi che avete detto che gli uomini nascono e vivono liberi e uguali davanti alla legge. Provatelo». Come risposta, ci mandano a massacrarli.
Il controllore, vicino a me, mi dice che solo una minoranza di algerini chiede l’indipendenza, tutti gli altri hanno bisogno della Francia e ci tengono a noi. Sta ai fellaga chiedersi se hanno ragione di far la guerra.
Risposi, altrettanto gentilmente, che mi mancavano gli elementi statistici per provargli il contrario, ma che comunque non lo credevo. Inoltre, se questa minoranza rappresentava l’avanguardia del paese, era dalla parte del vero.
Non ci eravamo mai spinti così lontano. Alain riportò la conversazione su un soggetto meno scabroso:
— Occuparci degli algerini non è affar nostro. Io penso che le vittime della guerra siamo prima di tutto noi, chi non ha ancora 25 anni. Se in Algeria ci sono dei tipi che vanno tra i partigiani, lo fanno perché lo vogliono e perché sono forse contentissimi di passare alla lotta. I più disgraziati siamo noi, perché questa guerra non ci riguarda affatto. Non abbiamo nessun interesse… In poche parole, ci rompe i c…
Il nostro «piede nero» stava per essere preso da una crisi apoplettica. Il controllore osservò che, «personalmente, lui era felice di combattere per la patria, contribuendo così a conservarle il suo patrimonio nazionale». Si misero a vociare tutti insieme: del petrolio sahariano, del vino rosso, d’aranci e di un milione d’europei abbandonati. Ma qualcuno cominciava a difendere Alain, soprattutto un piccolo tipografo che faticava a parlare:
— Certo, andare a proteggere i coloni non è compito nostro! Io, in tutta la faccenda ci rimetto il posto. Allora, scherzi a parte, siccome non ho finito di pagare la Vespa, e avrei desiderato sposarmi prima di essere impotente, i ventiquattro mesi non mi vanno giù. E quando dico ventiquattro mesi, è tanto per dire.
Gli tolsero la parola:
— Non dir fregnacce, a che serve? Ce n’è di quelli che hanno fatto due anni e mezzo; allora, non lamentarti!
Un altro:
— Voi trovate normale che i vostri padri si siano battuti nel 14 e nel 39; ma quando è il vostro turno, ve la squagliate!
Bernard si levò di nuovo:
— Beh, allora ti sbagli: io sono pronto a difendere il mio paese, se è attaccato. Sono pronto a fare il partigiano nella foresta di Fontainebleu, se occorre.
Ma dico che non vedo nessuna ragione di battermi contro i cabili. Che cosa m’han fatto i cabili?
Io dico:
— Barba ha ragione; questa guerra è il dramma della nostra generazione. Ci passano tutti. E, per i tre quarti, non c’è un briciolo di patriottismo che li spinga a partire. Non vorrete dirmi che è una guerra normale!
«Piede nero» ne aveva abbastanza. Andò a bere altrove il suo Ricard.
— E fosse solo questo — continuai.— Col pretesto del contro-terrorismo, vi trasformano in SS in miniatura. Non occorre molto: un’atmosfera di costante paura, facce sconosciute, forse lo spettacolo di qualche cadavere mutilato, una relativa libertà d’azione, e ci siamo: farete cose incredibili in preda agli istinti più nascosti… Ma la cosa più grave, per me, è che trasformano perfino la nostra coscienza. Ho un amico, è aspirante nell’Uarsenis. Prima di partire aveva idee politiche molto solide. Ora non sa più a chi credere. Il modo con cui l’hanno riplasmato psicologicamente ha del prodigioso. All’interno dell’Africa, tagliato fuori da tutto, confessa di non esser più capace di vedere le cose obiettivamente. Un ragazzo che un tempo ha passato le notti a scrivere sul muri Pace in Algeria, oggi mi scrive: «Bisogna che riprendiamo in mano la situazione; i musulmani non potranno mai amministrarsi da soli». E per soprammercato, deve inculcare quest’idea ai suoi uomini. Burattini, siamo. È una distruzione morale in massa, di tutta una generazione.
— Ammettiamo che tu abbia ragione — disse il controllore.— Ma perché il dramma della nostra generazione è più grave di quello delle generazioni del 40 o del 14?
Bernard mi precedette:
— Ma non c’è confronto! Tutte e due le volte, si trattava di difendere il proprio paese. Anche gli operai socialisti di Jaurès, che si opponevano alla guerra, furono d’accordo, in fin dei conti, per fermare l’invasore. E anche i ragazzi dei Cantieri della gioventù, nel 42, capirono che bisognava opporsi alla Germania. Ma, questa volta, non siamo noi a essere attaccati, a difenderci. Mi pare che siamo piuttosto nel campo degli oppressori, no? E contro questo fatto non posso farci niente. Ecco il dramma.
Un ragazzone delle Ardenne, seduto all’angolo del tavolo, parlò:
— Mi fate proprio ridere col vostro «dramma»; fa soffrire voi soli. Vi dirò francamente che a me interessa molto, al contrario, andare laggiù. E non per turismo, ma per sport, per la vita, la vera vita. Mi farà bene, una volta tanto, crepare di stanchezza, aver fifa, affrontare la morte; e poi rendermi conto che supero la prova, che ho coraggio. È un’occasione! Sì, ci tengo al mio battesimo del fuoco.
— Beh, non io — disse il tipografo. — Preferisco il battesimo del mio primo bambino. Che mi lascino almeno il tempo di darglielo! Tutto quel che chiedo è d’essere lasciato in pace.
Applausi generali e allusioni alla moglie del tipografo.
Alain riprese la parola:
— Se non capite che la nostra situazione è drammatica, è perché vi rifiutate di aprire gli occhi. Voi barate; tutti, del resto, bariamo. Oggi siamo tagliati fuori. Cinquant’anni fa c’erano ancora scioperi violenti, primi maggio sanguinosi. Nel 36, s’era ancora capaci d’entusiasmo collettivo, di solidarietà e di rivolta. Era gente che aveva meno da perdere e che reagiva meglio davanti all’ingiustizia. Noi, oggi, siamo degli addormentati, menefreghisti o pazzi furiosi. Pensiamo solo al week-end, agli scooter e a fare all’amore. A vent’anni siamo già dei piccoli borghesi. La società? Un piccolo trucco che si limita alla moglie, all’amante, al figlio, agli amici, allo scopone. Totale, non si è più responsabili di niente. E poi, soprattutto: niente politica, per favore! Si preferisce criticare senza immischiarsi. L’ingiustizia, non ha più importanza. Se uno si permette di dire che la guerra d’Algeria è un dramma, è un matto! E così il dramma non esiste più.
— Come lo spieghi, Barba? — chiese il controllore.
— Non ho ancora 25 anni e può darsi che non sia ancora maturo per spiegarlo con serietà. Secondo me queste sono le conseguenze dell’ultima guerra: lo spettro costante della bomba H, tutta questa atmosfera che ci impedisce di comunicare, e ci obbliga a rinchiuderci in noi stessi, al caldo.
[…]
Parlai del disorientamento di noi giovani. Il dottore mi ascoltava attentamente, scuotendo la testa. Alla fine, si lanciò di nuovo:
— Quello che dice non è evidentemente piacevole. Lo so, lo so. Ma mi piacerebbe dirle una cosa: il vostro dramma resta, comunque, del tutto secondario; il problema non è lì. Lei lo considera in maniera del tutto soggettiva; il dibattito va allargato. La gioventù francese passa, ora, un brutto quarto d’ora: ci sono cento, duecento morti al mese, accordo! Gli altri tornano abbattuti, demoralizzati, d’accordo! Ma ha pensato che, dall’altra parte, si tratta del sacrificio d’un popolo intero, un’ecatombe di uomini adulti, male armati, di vecchi, donne, bambini sistemati nei campi profughi o di rifugiati che crepano di fame? Da quella parte, è il novanta per cento della popolazione che soffre. E non solo moralmente, come voi, ma totalmente. Bisognerebbe mettersi nella pelle d’un algerino. Si rende conto che quegli uomini sono vissuti, condannati al disprezzo di tutti, dal 1830 ad oggi? Il più delle volte erano considerati come bestie da soma. Tuttavia durante la guerra li hanno usati come gli altri cittadini! Nel 1945, ne hanno massacrati 40.000 per paura d’una qualsiasi ondata di rivendicazioni nazionali. È allora che la guerra è cominciata in Algeria, non nel 1954. Il nazionalismo s’è rinforzato, s’è propagato. Le elezioni hanno continuato ad essere truccate, i braccianti a guadagnare 30.000 franchi l’anno, le donne musulmane ad essere respinte sui tram dai nostri studenti, i loro figli a non andare a scuola. Un bel giorno tutto questo doveva esplodere. Alcuni uomini decisero che non potevano accettare d’esser trattati così in eterno. Spesso erano proprio quelli che s’erano formati una cultura francese, che avevano avuto il privilegio di conoscere del nostro paese qualcos’altro oltre il poliziotto o l’esattore. Questa Francia essi l’hanno amata, rispettata, perché aveva portato loro anche un messaggio d’umanità e di speranza. Cosa avevano chiesto altre volte? Solo «l’integrazione» e il titolo di «francesi integrali». Venticinque anni fa, questo è tutto quello che Ferhat Abbas chiedeva! Nient’altro. Ma vedendo che le parole non cambiavano niente, capirono che solo la violenza poteva far trionfare le loro aspirazioni, e diventarono ribelli. Nelle regioni più povere, era tutta la popolazione che li spingeva. Poi la guerra s’è estesa. Non credo, del resto, che le cose possano tornare indietro.
[…]
Ci parlò degli algerini che conosceva. Prima dell’insurrezione andavano spesso a chiacchierare con lui, la sera. A quell’epoca, alcuni erano sicuramente ricercati dalla polizia. Dopo il 54, si unirono ai ribelli e lui li vide solo di sfuggita. Ci parlò a lungo di questi uomini che, non avendo nulla da perdere, davano prova d un coraggio quasi mostruoso ed erano pronti a correre tutti i rischi; uomini appassionati, semplici, che conducevano la loro azione con una serietà assoluta.
Bernard l’interruppe:
— Ma come spiegare che si rivelano poi capaci delle peggiori atrocità?
— Dirò subito una cosa: la violenza chiama violenza, Per molto tempo i ribelli non hanno praticamente mai toccato la popolazione civile, verità nascosta accuratamente in Francia. Poi la Francia ha scatenato una repressione cieca e brutale: un tentativo d’imboscata dei ribelli era seguito da un bombardamento del vicino attendamento arabo, senza parlare del sistema di rappresaglia che voi conoscete. Nessuna meraviglia se ad Algeri la fucilazione di tre sospetti provoca l’esplosione della bomba in un bar. È un cerchio infernale.
[…]
Alain e Bernard ottennero il loro ultimo permesso.
Alain tornò a T. per rivedere i suoi vecchi amici. Una sera andò da Albert, l’orologiaio. Ci trovò Bob e un prete della Missione di Francia.
Dapprima parlarono di tutto e di niente; poi Alain fece qualche domanda per sapere a che punto erano rimasti politicamente: che pensavano del compito di un giovane francese in Algeria?
Risposero che il fatto di trovarcisi era molto pietoso, ma che, per un cristiano, c’era del lavoro da fare sul posto, un lavoro d’«umanizzazione».
Alain spiegò che non ci credeva più.
Gli dissero di un amico del quartiere ch’era riuscito a farsi passare per infermiere e aveva avuto contatti molto utili con la popolazione.
Rispose che se bisognava giocar d’astuzia per trovarsi una copertura morale, non se ne sentiva capace: d’altra parte, questo non l’interessava. Disse che non voleva avere nessun rapporto di questo genere con gli algerini e che calpestare la loro terra era rinnegare se stesso.
Gli risposero:
— Se sei costretto a sparare, tu non sei responsabile. È il tuo governo, lo sono i tuoi capi. Non si può avercela con tutti i ragazzi che stanno laggiù.
Dichiarò che si rifiutava di fare distinzione tra responsabilità individuale e responsabilità collettiva. Nella misura in cui era individualmente lucido, informato, cosciente, era responsabile dei suoi atti, del suo assenso; diventava subito, non una vittima, ma un complice.
Gli chiesero dove voleva arrivare.
Annunciò che aveva ricevuto l’ordine di partire e che si rifiutava di eseguirlo.
Credettero che scegliesse la prigione. Trovarono la cosa molto bella dal punto di vista estetico, e tutta a suo onore. Ma la giudicarono ugualmente un inutile sacrificio.
Alain precisò che voleva disertare.
Albert gli disse allora, senza ridere, che non aveva il diritto di rompere la propria solidarietà col gruppo umano che lo aveva formato; in oltre, tradiva i suoi camerati di reggimento che, al contrario, subivano la prova stoicamente. Era ripugnante da parte sua. Non aveva neppure il diritto di tagliar netto con la Francia, perché automaticamente si vietava tutto il lavoro futuro che avrebbe potuto rivolgervi. In breve, trovava tale decisione vile e concluse che non amava quelli che si ritiravano nel bel mezzo della battaglia.
Alain cercò di spiegare. Non si ritirava dalla lotta: passava dalla parte del più debole.
[Il disertore, 1960]