Articolo tratto dal numero 8 della rivista Fenrir
Il sistema produttivo delle merci coinvolge oggi tutta una serie di passaggi dislocati in diversi punti del pianeta, talmente distanti dalla nostra percezione e conoscenza che difficilmente possiamo riuscire a immaginare cosa si celi dietro agli oggetti di uso comune che ci circondano.
Con l’espansione del sistema industriale-capitalista a livello globale, la produzione avviene oggi grazie a un’enorme rete di connessione, diffusa in tutto il mondo, tra i diversi centri di estrazione, lavorazione e assemblaggio delle materie prime e delle singole componenti. Il prodotto finito così assemblato sarà successivamente trasportato in milioni di esemplari nei punti vendita di tutto il mondo.
I luoghi di estrazione delle materie prime e della lavorazione vengono prescelti non soltanto in base alla disponibilità nel suolo della risorsa necessaria, ma anche e soprattutto in base a quanto la risorsa umana sia sfruttabile e ricattabile. In questi paesi il lavoro in fabbrica o in miniera è l’unica possibilità di sopravvivenza per milioni di persone, che sono state spossessate delle modalità di vita che conducevano in precedenza (spesso basate su agricoltura, pesca, ecc.), a causa della neocolonizzazione economica che subiscono da parte dei paesi industrialmente sviluppati.
Il mercato della tecnologia elettronica è oggi uno dei più proficui per l’economia dei paesi industrialmente avanzati, ed anche per quelli di più recente industrializzazione. L’ampia disponibilità e il basso costo della miriade di apparecchi elettronici presenti nelle società attuali dei paesi più privilegiati dipende da forme di pesante sfruttamento perpetrate in diversi luoghi situati nell’est e nel sud del mondo, a partire dai territori in cui vengono estratte le materie prime necessarie per la fabbricazione, passando per le fabbriche di assemblaggio delle varie componenti per finire ai luoghi dove tutti i rifiuti della nostra voracità tecnologica vengono smaltiti. Andare a individuare i vari passaggi della filiera dell’industria elettronica, e lo sfruttamento che dietro vi si cela, mette in evidenza, una volta di più, come la tecnologia non sia neutrale e come il discorso non si possa ridurre unicamente all’uso che si fa dei vari apparecchi elettronici, ma come piuttosto una società tecnologicamente avanzata non possa esistere senza il dominio su altri esseri viventi e la devastazione di ampi territori.
Estrazione di minerali, schiavitù e guerra
Un cellulare qualunque contiene, in proporzioni diverse, decine di minerali come piombo, cadmio, oro, berillio, ferro, cloro, argento, magnesio, bromo, fosforo, gallio, antimonio, bismuto, litio, cobalto, alluminio, stagno, zinco, rame, nichel, palladio, tantalio, cromo, platino, silicio, arsenico, ittrio, lantanio, terbio, neodimio, gadolinio, europio, disprosio, praseodimio oltre chiaramente a tanto petrolio per le plastiche e come carburante per l’intera filiera. Questi innumerevoli materiali provengono da diversi luoghi sparsi per i cinque continenti del pianeta.
Il 16 agosto 2012, a Marikana, in Sudafrica, trentaquattro minatori dipendenti della multinazionale britannica Lonmin, che estrae platino dai ricchissimi giacimenti sudafricani, sono stati uccisi dalla polizia con colpi di arma da fuoco mentre manifestavano per un rialzo salariale. Questo è soltanto uno dei tantissimi esempi del livello di ricattabilità e sfruttamento presente nelle miniere in cui questi minerali vengono estratti, specialmente in Africa.
Il caso del tantalio è quello più conosciuto anche dall’opinione pubblica internazionale per la sua drammaticità, anche se la situazione nelle miniere di cobalto o altri minerali non è dissimile. Il tantalio è un minerale indispensabile per l’industria hi-tech odierna, perché i condensatori al tantalio consentono un grande risparmio energetico e quindi una maggiore durata di carica delle batterie, ed è inoltre resistente ad altissime temperature. E’ utilizzato quindi in dispositivi come telefoni cellulari, computer, videocamere, GPS ecc. ma anche ove sia necessaria un’altissima resistenza al calore, come nell’industria aerospaziale per la costruzione delle turbine, e in molte altre applicazioni militari.
Questo materiale in natura si trova molto raramente puro, generalmente è associato ad altri ossidi. Esistono giacimenti in varie parti del mondo tra cui Cina, Brasile, Australia, Ruanda e Russia, ma l’80% delle riserve mondiali di tantalio si trova nella regione del Kivu, nel nord-est della Repubblica Democratica del Congo (RDG), associato a un altro materiale detto columbite, in una miscela definita coltan. Anche la columbite è un materiale importante, comunemente usato in leghe speciali ad alta resistenza come quelle usate per fabbricare tubi per gli oleodotti e materiale per l’industria aerospaziale.
La Repubblica Democratica del Congo ha una lunga storia di sfruttamento delle proprie risorse naturali. Da inizio ‘900, quando era ancora una colonia del Belgio, le compagnie belghe cominciarono a estrarre oro, diamanti e metalli rari dal sottosuolo congolese, tra cui il cobalto, di cui la Repubblica Democratica del Congo possiede il 50% delle riserve mondiali.
La realtà di questo paese è esemplificativa di cosa significhi lo sfruttamento delle risorse naturali a unico vantaggio dei ricchi paesi occidentali. Il paese è infatti ricchissimo dal punto di vista geologico e minerario, e gode della seconda foresta pluviale al mondo per dimensioni, con spazi immensi di terreno fertile, oltre che infinite risorse idriche. Sarebbero presenti tutti i presupposti per sfamare le popolazioni che vi abitano mantenendo un equilibrio con la lussureggiante natura circostante. Eppure le principali colture come il cacao, il caffè, il cotone, l’olio di palma, il tè, la gomma, lo zucchero, la corteccia di china, il mais, il riso, le patate e gli anacardi, che si estendono per ettari e ettari di monocoltura, sono di proprietà di imprese commerciali estere e destinate all’esportazione. La Repubblica Democratica del Congo è anche il terzo produttore mondiale di diamanti, esporta grandi quantità di petrolio e di rame, cobalto, oro, zinco e coltan, eppure la sua popolazione è tra le più povere al mondo, e i suoi territori sempre più devastati e impoveriti.
Oggi nel paese ci sono almeno 500 miniere, quasi tutte illegali, e i minatori sono stimati essere 500.000 individui, con un’aspettativa di vita al di sotto dei 50 anni. Percepiscono appena 0,18 euro per ogni chilogrammo di coltan estratto, quando sul mercato il prezzo del coltan arriva fino a 600 dollari al chilo.
Dal punto di vista ambientale, l’estrazione di coltan e altri minerali è devastante. Le grandi riserve naturali di foreste sono intensamente sfruttate, in maniera diretta o indiretta, dalle multinazionali che procedono al disboscamento sistematico per ricavare legname pregiato e aprire nuove miniere di diamanti e di oro, stagno, tantalio (coltan), tungsteno. L’afflusso massiccio di minatori nelle zone di estrazione del coltan ha portato allo sfruttamento intensivo di vasti territori, per la necessità di cibo e legname. La distruzione degli habitat ha portato alla morte e all’estinzione di innumerevoli specie di animali selvatici, mentre migliaia di elefanti e gorilla sono stati uccisi per nutrire la crescente popolazione della zona.
Con l’aumento della richiesta mondiale di tantalio, si è fatta particolarmente accesa la lotta fra gruppi para-militari e guerriglieri per il controllo dei territori congolesi di estrazione. Le zone di estrazione dei minerali sono occupate da eserciti irregolari di miliziani e mercenari (si parla di circa 8000 individui) in rivalità tra di loro e con l’esercito governativo, che costringono le popolazioni locali a lasciare la zona, a lavorare in condizioni schiavistiche o a cedere parte del materiale estratto come tangente, oltre a utilizzare lo stupro nei confronti delle donne come strumento di guerra e di controllo del territorio. Più di 10.000 agricoltori della zona hanno visto distruggere i loro territori e sono stati costretti a iniziare a lavorare in miniera. Si stima in 1,3 miliardi di dollari l’anno il giro di affari dei gruppi criminali internazionali militarizzati implicati nel traffico di minerali, oro, legname, carbone e avorio e che finanziano dai 25 ai 49 gruppi armati sia congolesi che stranieri. Questa rete criminale opera dai paesi confinanti come Uganda, Ruanda, Burundi e Tanzania. Altre miniere non sono sotto il controllo delle milizie ma dell’esercito nazionale, che a sua volta estorce dai minatori parte del loro lavoro.
Due dei paesi confinanti, Ruanda e Uganda, pur avendo scarsissime riserve naturali di tantalio, figurano tra i maggiori esportatori mondiali, poiché finanziano e armano le milizie che attraverso la violenza contrabbandano questo e altri minerali attraverso le due nazioni africane. Quei minerali vengono poi venduti dal Ruanda e dall’Uganda a multinazionali occidentali della telefonia e dell’elettronica come Nokia, Ericsson, Siemens, Sony, Bayer, Intel, Hitachi, IBM e molte altre, che con i loro soldi vanno quindi a finanziare questa guerra sanguinaria. Il traffico e la lavorazione del minerale avviene attraverso decine di compagnie, ma è una sussidiaria della tedesca Bayer, la H.C. Starck, ad occuparsi della raffinazione del 50% del tantalio.
Migliaia di bambini vengono strappati alle loro famiglie in Ruanda, Uganda o nella stessa Repubblica Democratica del Congo da questi gruppi armati, di cui entrano a far parte se dimostrano coraggio e sangue freddo, in caso contrario verranno messi a lavorare come schiavi nelle miniere. Bambini che sono tra le vittime principali del coltan, costretti a lavorare fino a settantadue ore consecutive nelle miniere e che, per le loro piccole dimensioni, vengono fatti calare nelle strettissime buche scavate nel terreno per estrarre le grosse pietre che una volta frantumate daranno il prezioso materiale.
Il coltan viene estratto con pale e picconi negli alvei, nei depositi alluvionali e nelle rocce fragili anche su ripide colline che spesso tendono a sbriciolarsi e questo provoca spesso delle frane. Il materiale raccolto in sacchi fino a 50 kg viene quindi trasportato a spalla da bambini e adulti fino al centro di scambio più vicino, che a volte si trova a due giorni di cammino. Il tasso di morte tra i minatori è altissimo a causa di frane, asfissia, lavoro forzato e violenze dei miliziani. La loro salute è messa a dura prova dai ritmi di lavoro pesantissimi, inoltre il tantalio è anche radioattivo poiché contiene una parte di uranio, e di conseguenza provoca spesso tumori o altre patologie che portano a una morte prematura. Essendo miniere “abusive” tutte le operazioni vengono svolte in modo artigianale, e così dopo le operazioni di filtraggio nei fiumi, i materiali residui vengono abbandonati direttamente sulla sponda ed essendo molto inquinanti, oltre che radioattivi, inquinano pesantemente l’acqua.
Si stima siano oltre 6 milioni le persone congolesi morte a causa della guerra civile per il controllo dei minerali, in particolare del coltan, a seguito di uccisioni oppure per fame o malattie. E’ il conflitto che ha causato più morti nel mondo dalla seconda guerra mondiale. Una guerra spaventosa legata all’enorme sete di questi minerali considerati strategici per l’industria elettronica e militare dei paesi occidentali.
Come se non bastasse, la Repubblica Democratica del Congo è occupata militarmente dagli Stati Uniti dal 1999, con la più costosa “missione di pace” dell’ONU (1,38 miliardi di dollari l’anno, quasi un quarto del budget totale dell’Onu) denominata “Monusco”, che vede la presenza sul territorio di 462 osservatori militari, 1.090 membri del personale di polizia e 18.232 membri del personale militare, ovvero complessivamente 19.784 membri in uniforme. Il più grande finanziatore dell’operazione sono gli Stati Uniti, che nel 2011 hanno anche firmato un accordo bilaterale di 1,8 miliardi di dollari con la Repubblica Democratica del Congo che cancella il suo debito verso gli USA, assicurandosi così un valido partner per le importazioni di coltan, che attualmente ammontano a 272,8 milioni di dollari all’anno, e di altri metalli.
La capacità del tantalio di sopportare temperature altissime generate dai processori di ultima generazione, si sta rivelando strategica per molte nuove applicazioni militari, che utilizzano oggi condensatori a base di tantalio: per esempio i sistema di guida per le smart bombs, i droni, i robot e tutta una varietà di apparecchiature da guerra. Questi avanzamenti nella tecnologia militare fanno aumentare la richiesta di coltan da parte dei paesi militarmente più avanzati. Per paesi come gli Stati Uniti questo significa dipendere totalmente dalle importazioni, dato che non hanno alcuna riserva di coltan sul proprio territorio. La Defence Logistics Agency degli Stati Uniti (USDLA) conserva riserve dei principali minerali e metalli rari strategici nel suo Deposito di Difesa Nazionale (NDS). Questo deposito è stato istituito nel 1939 per ridurre la possibilità di “una pericolosa e costosa dipendenza degli Stati Uniti da risorse straniere per la fornitura di questi materiali in periodi di emergenza nazionale”. Ciononostante, le riserve di tantalio nel deposito stanno diminuendo. Per questo, in un rapporto del Pentagono di un anno fa riguardante la dipendenza degli Stati Uniti dai minerali, il Dipartimento della Difesa raccomandava di accumulare riserve di tantalio e di altri otto minerali strategici.
La missione Monusco, che viene presentata come un tentativo di riportare la stabilità nella Repubblica Democratica del Congo, nasconde in realtà, neanche troppo velatamente, gli obiettivi imperialistici degli Stati Uniti, alleati, ricordiamolo, del Ruanda, dell’Uganda e dello stesso regime di Joseph Kabila, presidente della Repubblica Democratica del Congo che uccide e imprigiona sistematicamente civili per conservare il suo potere. Non è la prima volta nella storia della Repubblica Democratica del Congo che le forze delle Nazioni Unite sono state utilizzate come strumenti per le ambizioni imperialistiche occidentali. Nel 2009, le Nazioni Unite hanno collaborato con le forze paramilitari del Ruanda e con l’esercito congolese durante Operation Kimia II e Umoja Wetu, in cui le milizie congolesi e i paramilitari del Ruanda hanno stuprato e ucciso almeno 700 civili congolesi.
Gli abitanti locali denunciano numerosi casi di stupro e sfruttamento sessuale verso donne e bambini/e, mancata assistenza di civili in pericolo, connivenze con bande armate e gruppi terroristici, contrabbando di oro, diamanti e coltan da parte delle truppe dell’ONU. Il 31 marzo 2017 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha deciso di rinnovare la missione Monusco nella Repubblica Democratica del Congo, con lievi tagli nei finanziamenti e nel personale a causa delle pressioni di Trump. L’Italia, pur essendo l’ottavo finanziatore delle missioni ONU nel pianeta, ha scarsa influenza in quella regione dell’Africa: le imprese italiane nella Repubblica Democratica del Congo sono poche, e il governo italiano ha ridotto ai minimi termini gli aiuti umanitari e la collaborazione con il governo congolese.
I conflitti e la violenza legati al coltan non sono un’esclusiva dell’Africa centrale. Recentemente sono state scoperte riserve significative di coltan nella foresta amazzonica, al confine tra Venezuela e Colombia. Questo sta portando alla nascita di un emergente mercato nero, gestito dai signori della droga colombiani e da altri gruppi criminali.
Assemblaggio
La produzione di un qualunque apparecchio elettronico ha un impatto ambientale notevolissimo. Realizzare un singolo computer, come i tanti che vengono prodotti e venduti in tutto il mondo, richiede complessivamente l’utilizzo di 1,5 tonnellate d’acqua, 22 chili di sostanze chimiche e almeno 240 chili di combustibili fossili. E ogni anno vengono venduti nel mondo oltre 170 milioni di computer… Tra i componenti più onerosi dal punto di vista delle risorse vi è il microprocessore, che richiede enormi quantità di energia e sostanze chimiche. Il microchip, dispositivo in grado di compiere operazioni di calcolo o di elaborare grandi quantità di informazioni, è il “cuore” tecnologico, o meglio, il “cervello” di tutti gli strumenti elettronici: dai computer ai telefonini, dalle calcolatrici agli elettrodomestici, dagli orologi alle automobili. I microscopici transistor che costituiscono i microchip sono costruiti su delle piastrine di silicio, considerato per tale motivo l’elemento base dei circuiti integrati (da lì il nome di “Silicon Valley” all’area industriale della California dove si concentrano numerose aziende di informatica ed elettronica). Per arrivare alla realizzazione di un microchip ci vogliono circa 200 passaggi di lavorazione, che richiedono un dispendio di risorse notevolissimo.
Con la globalizzazione, negli ultimi decenni l’organizzazione della produzione è divenuta ancora più frammentata su scala mondiale, grazie alla delocalizzazione degli impianti produttivi in paesi precedentemente non industrializzati, alla ricerca di minori costi e vincoli sul lavoro. Questo processo di insediamento industriale va di pari passo con un altro processo che vede la massiccia privatizzazione della terra, comprata o sfruttata dalle multinazionali occidentali per il legname, le miniere o l’agricoltura e l’allevamento intensivi, con la conseguente espulsione dei contadini locali, lasciati senza risorse e mezzi di sussistenza. Da lì l’abbandono delle campagne e la massiccia migrazione di queste popolazioni dai paesi dell’est e del sud del mondo verso l’Europa occidentale, gli Stati Uniti o verso paesi loro confinanti, o lo spostamento di massa verso le grandi città in cerca di un qualunque lavoro, spesso nelle fabbriche.
La stragrande maggioranza delle componenti elettroniche viene realizzata in Asia: i principali esportatori mondiali di manufatti ad alta tecnologia sono Cina, Filippine, Malesia, Singapore, Thailandia, Taiwan e Indonesia, oltre a due paesi dell’America centrale, Costa Rica e Messico, e a paesi dell’est europeo come Romania e Ungheria. Per paesi come Malesia e Filippine la produzione di prodotti elettronici rappresenta il cuore dell’economia del paese, più dei prodotti alimentari o tessili, arrivando a rappresentare circa il 60% del totale delle esportazioni.
La filiera produttiva avviene attraverso l’appalto: le grandi imprese proprietarie dei marchi, come Ibm, Hewlett-Packard, Dell, Fujitsu-Siemens, Toshiba e altre si limitano alla progettazione e al marketing dei prodotti, mentre la produzione vera e propria è realizzata da multinazionali asiatiche come Solectron, Flextronic, Samina-Sci, Celestica (i cosiddetti contract manufacturer). [1] Queste aziende non sono più semplicemente dei fornitori delle grandi marche, o loro assemblatori, ma ormai riescono a coprire gran parte della filiera produttiva che viene loro appaltata, dall’approvvigionamento di componenti alla costruzione e alle spedizioni. L’obiettivo di questi appalti ad aziende asiatiche è di produrre a costi sempre più bassi per mantenere competitivo il prezzo di vendita finale. Questo è possibile soltanto al prezzo di condizioni di lavoro di drammatico sfruttamento.
Il 90% della produzione mondiale di prodotti elettronici arriva da Shenzen, una megalopoli della Cina situata poco a ridosso di Hong Kong e sviluppatasi proprio intorno al business dell’industria elettronica, in cui convivono centinaia di fabbriche adibite unicamente a questo scopo. Shenzen è oggi la terza città più grande della Cina e considerata Zona Economica Speciale (ZES), in quanto prescelta trent’anni fa dal suo governo comunista/capitalista come sito dove sperimentare un accelerato sviluppo industriale, che ha portato a un enorme boom economico. Prima della sua incredibile espansione, Shenzen era un piccolo villaggio di pescatori, mentre oggi conta una popolazione, in continua crescita, di quasi 15 milioni di persone, ed è una metropoli industriale e commerciale, con i suoi grattacieli, centri commerciali e (ovviamente) innumerevoli negozi di elettronica. Shenzen ha dato quindi anche i natali a una nuova classe urbana lavoratrice. I lavoratori che la popolano provengono principalmente dai villaggi poveri dell’entroterra rurale, distanti anche tremila chilometri, da cui si sono trasferiti in cerca di lavoro, e vivono spesso in dormitori situati all’interno delle stesse fabbriche e messi a disposizione dall’azienda, costituiti da stanzette di pochi metri quadri in cui la gente è ammassata in letti a castello. Alcune fabbriche non forniscono neppure i dormitori, e i dipendenti a fine giornata dormono direttamente sotto la catena di montaggio, per le poche ore che li separano dal turno successivo.
Le condizioni lavorative in questi stabilimenti sono molto dure. La linea di produzione non può essere abbandonata per nessun motivo, ed è proibito parlare o guardarsi attorno. I turni lavorativi sono spesso doppi e arrivano a 16 ore filate, mentre gli straordinari sono obbligatori e possono arrivare a 80 ore settimanali. L’industria informatica utilizza molte sostanze chimiche che irritano la pelle, gli occhi, i polmoni e provocano tumori. Secondo alcuni studi, tra chi lavora in questo settore l’incidenza di tumori alla testa, allo stomaco, e ai polmoni è quattro volte più alta che nel resto della popolazione. Lavorano moltissime donne in queste fabbriche, dove vengono spesso preferite agli uomini perché avendo dita più sottili sono considerate più adatte a lavorare con le microscopiche componenti elettroniche (che faranno loro perdere la vista nel giro di pochi anni).
Gli impianti della Foxconn, che produce smartphone, tablet, laptop e console di videogame per Apple, Microsoft, Dell, Sony e altri marchi famosi, sono i più imponenti di Shenzen, e formano la città-fabbrica più grande del mondo con il suo quasi mezzo milione di dipendenti. Dodici chilometri quadrati all’interno dei quali si susseguono stabilimenti, catene di montaggio, magazzini, ribalte, piazzali gremiti di camion, mense e dormitori. Foxconn è la più grande produttrice mondiale di elettronica, e fabbrica per esempio i famosi iPhone della Apple (arrivando a realizzarne 500.000 esemplari al giorno). Nel 2010, per produrre la prima generazione di iPad della Apple, i lavoratori dell’impianto della Foxconn hanno lavorato per 13 giorni di fila, 12 ore al giorno. E Foxconn è una delle fabbriche di Shenzen in cui le condizioni lavorative sono tra le meno dure… Oltre al danno la beffa: nei campus della Foxconn si possono poi trovare negozi della compagnia in cui i lavoratori possono acquistare i prodotti da loro stessi fabbricati a prezzi scontati.
Questo stabilimento ha raggiunto l’attenzione dei media non soltanto per la notorietà dei marchi che gli affidano la produzione o per le sue dimensioni mastodontiche, ma anche per le numerose denunce delle condizioni atroci di lavoro, e per una drammatica scia di suicidi avvenuta tra i suoi giovanissimi dipendenti a causa delle cattive condizioni di lavoro e dello stress dovuto ai ritmi massacranti. Dall’inizio del 2010 sedici dipendenti si sono suicidati all’interno della fabbrica e altri hanno tentato di farlo, quasi tutti lanciandosi dai piani alti della struttura. L‘azienda ha risposto costituendo un centro di assistenza psicologica per i propri lavoratori depressi, rivolgendosi a dei monaci buddisti che hanno pregato all’interno dell’azienda per le anime dei lavoratori deceduti, e provvedendo a posizionare delle reti anti-suicidio su tutti i lati dell’edificio. Ma nel 2016 la Foxconn ha messo in campo una risposta ancora più eloquente: ha licenziato 60.000 lavoratori da uno dei suoi stabilimenti sostituendoli con dei robot. Il piano dell’azienda è di investire sempre di più nella robotizzazione, con l’obiettivo di rimpiazzare la quasi totalità dei suoi operai umani con linee di produzione completamente automatizzate. Foxconn potrà così liberarsi da ogni problematica riguardante i limiti “umani” dei suoi lavoratori e lavoratrici, che evidentemente non sono sfruttabili all’infinito, affidandosi alla servilità tacita delle macchine.
Le pattumiere del mondo
Il nostro viaggio lungo la filiera dell’industria elettronica termina in quelle che sono le discariche dei rifiuti tecnologici del mondo privilegiato. Da qualche parte, infatti, devono andare a finire le 50 milioni annue di tonnellate di computer, telefonini e altri aggeggi elettronici che a ritmi sempre più accelerati, vista la loro scarsa durata, ogni anno si trasformano in rifiuti. Rifiuti altamente tossici, da cui tuttavia milioni di disperati cercano di trarre di che sopravvivere. Smaltire questi rifiuti in Europa costerebbe più del doppio che caricarli sui mercantili e scaricarli in Africa, ecco facilmente spiegato perché vi è chi non si fa scrupoli a trasformare l’Africa nella pattumiera del mondo.
La discarica di Agbogbloshie si trova nei pressi di Accra, capitale del Ghana. Intorno a questa discarica si sono insediate abusivamente circa 80.000 persone che vivono in baracche di lamiera, in condizioni igieniche precarie, sprovviste anche dei servizi minimi come luce ed acqua, con il rischio costante di essere sgomberate dalla polizia inviata dall’esercito o da bande rivali rispetto a quelle che controllano la zona.
Frigoriferi, computer, stampanti, cellulari, forni elettrici, ma anche oggetti in plastica, copertoni di grossi camion e quant’altro confluisce qui, dove verrà smantellato a mani nude o bruciato per rilevarne ancora parti interne, come l’alluminio grezzo che risulta dai falò dei copertoni di camion. Fuochi e fumo denso inquinano perennemente il suolo, l’aria e l’acqua di questa zona, che risulta tra le 10 più inquinate al mondo, con altissimi livelli di piombo, cadmio, arsenico, cromo, diossine, bromo e altre sostanze altamente nocive (presenti fino a decine di volte il limite massimo consentito) che vengono a sprigionarsi nell’aria causando l’avvelenamento costante e la morte prematura degli abitanti di questi territori.
Circa 250-300 container arrivano quotidianamente sulle coste ghanesi, contenenti rifiuti elettronici provenienti prevalentemente da Stati Uniti, Gran Bretagna, Olanda, Germania, Danimarca, Svezia, Francia e Italia. Dai porti i rifiuti vengono trasportati nella discarica di Agbogbloshie o in altre della zona, dove bambini e ragazzi di ogni età scavano per recuperare apparecchi da riparare e rivendere o pezzi per assemblarne di nuovi, mentre altri pezzi vengono bruciati per recuperarne materie prime che verranno pagate un tanto al chilo, oltre a una dose assicurata di tumori dovuti alle esalazioni dei roghi. Dentro un tubo catodico si possono trovare due chili e mezzo circa di piombo, che contiene tossine dannose per i reni e per l’apparato riproduttivo; ma anche bario, che attacca lo stomaco e può causare problemi respiratori; il mercurio presente nei circuiti stampati e negli interruttori può provocare danni al cervello e ai reni; alcuni rivestimenti anti-corrosione sono cancerogeni. Le principali discariche si trovano inoltre adiacenti a due importanti bacini d’acqua, una laguna e un fiume, che non contengono più ormai alcuna forma di vita a causa del forte inquinamento causato dai liquami tossici, che si infiltrano anche nel sottosuolo fino a contaminare tutte le falde acquifere.
Se ci spostiamo dall’Africa alla Cina, la situazione non differisce di molto. Guiyu, in Cina, detiene due tristi primati: possiede la discarica di immondizia elettronica più grande del mondo, ed è il posto più inquinato del pianeta. Questi due aspetti hanno ovviamente un legame di causa-effetto. Secondo un reportage, qui “piramidi di smartphone, tastiere di computer e tablet occupano le strade e nascondono le case. Un branco di bufali d’acqua rumina in stagni neri da cui affiorano schermi di pc. Televisioni, cuffie e stampanti sono ammassate nelle risaie. L’aria è fetida, la nebbia spessa e arancione. Dopo pochi minuti occhi e narici bruciano”. Questo vecchio villaggio del Guangdong, a quattrocento chilometri da Guangzhou, è stato scelto come cimitero mondiale della rivoluzione digitale perché inadatto all’agricoltura industriale, essendo soggetto a frequenti inondazioni da parte del fiume Lianjiang. Si trova inoltre vicino alla costa sud della Cina, dove si concentrano le più importanti multinazionali dell’elettronica, che sono anche le prime a fornire i rifiuti da smaltire. La maggior parte degli apparecchi elettronici da smaltire arriva infatti dalla stessa Cina, che oltre ad esserne il principale produttore mondiale, ne è anche ormai tra i principali consumatori. Ma l’industrializzazione accelerata vissuta dalla Cina negli ultimi anni sta facendo pesare le sue conseguenze sull’ambiente e sulla salute dei suoi abitanti, con un inquinamento a livelli stratosferici.
In questa città di duecentomila abitanti, l’80% delle persone lavora nel riciclaggio di rifiuti elettronici, con 6.000 imprese tutte a conduzione famigliare. Ogni mattina, oltre centotrentamila donne, uomini e adolescenti lavorano a mani nude, senza protezioni, a smantellare, bruciare, sciogliere con gli acidi le scorie elettroniche, per poi seppellire nei campi o disperdere nei fiumi le polveri tossiche e gli ulteriori scarti. Da una tonnellata di rifiuti hi-tech si possono ricavare circa 300 grammi di oro, 10 di platino, 50 di palladio, 2 chili d’argento, 25 di stagno e 130 di rame. Lo scorso anno il 5 per cento dell’oro cinese, pari a 15 tonnellate, è stato estratto dai rifiuti elettronici, concentrato tra quaranta e ottocento volte di più rispetto ai giacimenti naturali. Chi non risparmia sulla chimica, usa degli acidi, solventi e sostanze chimiche, altamente tossici, che accelerano lo scioglimento di circuiti e microchip, separando quantità maggiori di elementi costosi. Ci si assicura così di conquistarsi più clienti tra i grandi marchi mondiali, portare maggiori profitti all’azienda famigliare e ammalarsi più velocemente.
“Nel suolo il piombo supera di 212 volte la soglia di rischio. I pozzi sono contaminati fino a tre chilometri di profondità. L’acqua contiene gli stessi residui rilevati a Chernobyl dopo l’esplosione e scoperti nel lago Karachay, dove l’Urss avviò l’arricchimento del plutonio. Tra gli abitanti la percentuale di tumori supera del 64 per cento la media nazionale. Uno studio su 165 bambini da uno a sei anni ha rivelato nel sangue livelli di piombo “pericolosi”, l’80 per cento degli scolari è affetto da disturbi respiratori e al sistema nervoso centrale”. L’acqua di Guiyu è così inquinata da piombo, cromo e zinco da non essere più potabile e in tutta la zona si rilevano le concentrazioni di diossine cancerogene più alte al mondo. Eppure ci troviamo in uno dei posti di lavoro più ambiti della Cina, perché smantellare rifiuti elettronici può fruttare molti soldi, ben più di quanti se ne possano guadagnare in miniera o nei villaggi poveri dell’entroterra: per questo la maggioranza delle persone che lavorano qui sono giovani migrati dalle zone più sottosviluppate, che hanno l’obiettivo di fare tanti soldi in poco tempo, per poi andarsene, sempre che la morte o la malattia non se li prendano prima.
Quei pochi abitanti della zona che non sono impegnati nel business dell’e-waste, resistono in alcune fattorie coltivando riso che, però, nessuno qui vuole mangiare, perché è un concentrato di cadmio e altre sostanze. In ogni caso è destinato all’esportazione, non si sa bene verso dove, e sulle scatole viene scritto che è stato coltivato nel Sichuan. Da queste parti viene chiamato “il riso elettronico”.
Articolo di Fenrir
Note:
[1] Il più grande contract manufacturer con sedi in Italia è Flextronics (Flex LTD), società nata nella Silicon Valley il cui quartier generale oggi è a Singapore. Fabbrica accessori, componenti o prodotti finiti, come palmari, telefoni cellulari, lettori MP3, schede WiFi, videocamere ecc. per conto di aziende come Microsoft, Apple, HP, Epson, Motorola, Palm, SanDisk, Casio. Ha impianti in 30 paesi e un fatturato di quasi 16 miliardi di dollari. In Italia Flextronics ha tre sedi: a Milano (Via Ernesto Breda, 176), a Somaglia, provincia di Lodi (Strada Statale 234 n. 1/3) e a Levada, provincia di Treviso (Via Dalla Torre don Angelo, 6).