Nemici-Amici: Il rapporto fra YPG e USA si sta rafforzando o sta crollando?

Traduzione a cura di romperelerighe

Col terminare del 2017 e l’autoproclamato califfato del cosiddetto Stato Islamico fatto a pezzi, e le sue forze ampiamente decimate, una nuova era è apparsa all’orizzonte per Siria e Iraq. I due paesi, di cui il primo trasformato nel fronte di una guerra globale per procura nel bel mezzo dei tumulti delle primavere arabe del 2011, ed il secondo violentato da quasi dieci anni e mezzo di guerra sin dall’invasione americana del 2003, sono sembrati sul punto di voltare pagina verso la prospettiva di un futuro più pacifico e stabile.

Il primo ministro iracheno Haider al Abadi ha proclamato la sconfitta dell’ISIS il 9 dicembre, dichiarando: “La nostra battaglia è stata contro un nemico che voleva uccidere la nostra civilizzazione, ma noi abbiamo vinto con la nostra unità e la nostra determinazione”.

Non c’è dubbio che lungo la regione sia stata ingaggiata una grande battaglia contro le tenebre. Questa variante del fascismo ha trovato la sua genesi nella guerra di G.W. Bush, da cui è nato l’embrione che ha portato lo Stato Islamico all’esistenza. Non c’è dubbio che ci sia stato un fronte comune contro questo nemico, quel tipo di unità che ha spesso portato strani alleati a disporsi sullo stesso lato del campo di battaglia. Che mondo sconcertante ha cominciato ad emergere quando le forze supportate dall’Iran, i peshmerga curdi, l’esercito dell’Iraq e gli Stati Uniti si sono ritrovati tutti insieme sulla stessa linea nella battaglia per Mosul, così come nelle operazioni successive mirate a ripulire le sacche di controllo dell’ISIS.

In ogni caso sotto la parvenza di “unità” giacciono delle contraddizioni, forse temporaneamente acquietate. È stato bizzarro assistere alle congratulazioni statunitensi verso la cosiddetta milizia Shia (conosciuta come Al-Hashd Al-Sha’abi, le Unità di Mobilitazione Popolare o PMU) per il suo successo nel contrastare l’ISIS. Il referendum per l’indipendenza del Governo Regionale del Kurdistan (KRG, nota: il Kurdistan iracheno) del 25 settembre ha infranto la parvenza di un’unione permanente, nel momento in cui il PMU si è unito all’esercito iracheno nella ripresa di Kirkuk dai peshmerga. La posizione degli Stati Uniti, sostanzialmente, è stata impostata sulla non intromissione in affari altrui e sulla convinzione che le due parti – entrambe alleate degli USA – avrebbero dovuto contenersi e moderarsi. È sembrato che, con lo Stato Islamico degradato in quanto entità o proto-stato, il rapporto fra USA e PMU cominciasse a passare dallo status di alleanza temporanea a quello di inimicizia, amplificato dal crescente atteggiamento di aggressività di Trump verso l’Iran.

In Siria la complessità delle alleanze d’opportunità (nemici-amici) è forse ancor più difficile da comprendere. All’inizio della guerra, Washington ha supportato le forze più brutali, retrograde e reazionarie del paese. Il supporto verso le fazioni sunnite integraliste dell’Esercito Libero Siriano (Free Syrian Army) ha portato alla crescita di al Qaeda, ed infine dello Stato Islamico. Quasi dieci anni dopo, ogni parvenza di supporto al Free Syrian Army è terminata e gli USA si trovano ora a sostenere essenzialmente una forza sola. Questa sembra essere la più progressista e di sinistra fra tutte le entità armate del paese, e sono le YPG (Unità di Protezione Popolare curde), sotto il più ampio cappello delle SDF (Forze Democratiche Siriane).

Difficilmente può trattarsi di un rapporto fra veri alleati, a dispetto delle varie dichiarazioni rilasciate dal Comando Centrale statunitense. L’alleanza è stata segnata da tensioni fortissime, conflitto e ostilità (si veda il mio precedente articolo sul tema: ‘Anti-Imperialists Must Understand the Relationship Between the SDF and U.S.)

Dopo Raqqa, le YPG si avvicinano alla Russia

In seguito alla sconfitta dello Stato Islamico a Raqqa, proclamata dalle SDF il 17 ottobre, la fine dell’alleanza fra YPG e USA è sembrata imminente. Questa cooperazione è sempre stata descritta come “strategica” dalla leadership curda ed è sembrato inevitabile che, una volta sconfitta la minaccia delle tenebre fasciste, la necessità di relazionarsi ad una potenza imperialista occidentale – sempre osservata con sfiducia per i propri attacchi ininterrotti e continuativi insieme alla Turchia contro i propri compagni appena al di là del confine – sarebbe cessata. Quando la polvere della battaglia si è posata e si è cominciato a ricostruire Raqqa (indubbiamente quasi rasa al suolo dall’orrenda realtà degli attacchi aerei statunitensi) è sembrato che l’amministrazione Trump fosse sul punto di mettere fine al proprio supporto verso i “compagni” curdi.

Il fatto che la guerra sembrasse finire con una vittoria duale – quella del governo siriano in collaborazione con i propri alleati russi e iraniani da una parte, quella delle forze a guida curda dall’altra – ha anticipato la possibilità di una maggiore cooperazione fra le YPG e la Russia.

Da parte sua, Mosca ha già rafforzato la propria collaborazione con le forze curde nel corso degli ultimi anni, incoraggiando la partecipazione dell’ala politica delle YPG (PYD; Partito Democratico Curdo) alle trattative di pace. Lo stato russo nel 2017 ha anche delineato una proposta di costituzione per il paese che prevede l’adozione di un modello federativo. Una delle proposte era di cambiare il nome da “Repubblica Araba di Siria” a “Repubblica di Siria”, nel tentativo di modellare una nuova struttura governativa multietnica che lasciasse intatta l’integrità territoriale dello stato e, al tempo stesso, incoraggiasse una maggiore autonomia delle componenti non arabe del paese. Nonostante gli USA conservino il ruolo dominante nel supporto alle forze armate operative in Rojava, è sempre stata la Russia a giocare il ruolo principale nella costruzione di un rapporto politico con il PYD, a partire dall’apertura di un ufficio per l’autoamministrazione del Rojava a Mosca, nel 2016.

YPG-SAA: Cooperazione e contrapposizione

Dopo la liberazione di Raqqa, le operazioni parallele dell’Esercito Arabo Siriano (SAA) e delle SDA per spingere lo Stato Islamico al di fuori di Deir ez-Zor hanno testato la capacità delle due forze di collaborare. Le tensioni si sono acuite in diverse occasioni, con entrambe le parti che dichiaravano di essere state attaccate dall’altra, e preoccupazioni crescenti che con la sconfitta dell’ISIS un nuovo fronte di guerra avrebbe visto SDF e SAA coinvolte in una battaglia all’ultimo sangue.

In ogni caso, terminato il 2017, non è apparso chiaro quale direzione avrebbe preso il rapporto fra le due parti “vittoriose” in Siria.

Verso la fine di novembre, il rappresentante a Mosca del PYD Abd Salam Muhammad Ali è sembrato carico di ottimismo circa la possibilità di raggiungere una soluzione politica che risultasse nell’integrazione delle SDF nell’Esercito Siriano. Comunque, questa dichiarazione è stata da molti interpretata erroneamente come un’apertura da parte delle SFD verso l’unione con l’Esercito Arabo Siriano, ovvero l’esercito di un governo non riformato e pur sempre centralizzato. Il PYD ha chiarito che ogni prospettiva di integrazione dipenderebbe dalla garanzia di autonomia per il Rojava.

Lo stato siriano, da parte sua, ha mostrato sentimenti contrastanti verso la Federazione Democratica della Siria del Nord e l’idea del federalismo. In settembre, in prossimità del referendum nel Kurdistan Iracheno, il ministro degli esteri di Bashar al Assad, Walid al Moualem, ha allungato un ramoscello d’ulivo riguardo l’autogoverno in Rojava, dicendo che “questo tema è aperto alle negoziazioni e alla discussione, e quando avremo finito con lo Stato Islamico potremmo sederci con i figli curdi e raggiungere un punto d’accordo per il futuro”.

In ogni caso le dichiarazioni di al Moualem sono state ricevuto con scetticismo dalla leadership del Rojava, dato che poche settimane prima Assad aveva dichiarato che “l’identità nazionale della Siria esiste, ma la sua essenza è l’Arabismo”. Questo in seguito ai commenti del viceministro degli Esteri Faisal Mekdad, in agosto, sul fatto che una Federazione Democratica della Siria del Nord fosse uno “scherzo”. È chiaro da molte delle dichiarazioni pubbliche rilasciate dal governo siriano che il punto principale nella disputa con le forze curde, al momento, sia la presenza degli USA nel nord del paese.

Secondo il diritto internazionale, gli unici poteri che hanno le basi legali per operare in Siria sono quelli che sono stati interpellati dal governo sovrano del paese. In questo caso, il governo legittimo è quello centrale di Damasco. Il coinvolgimento nella guerra di Russia e Iran dalla parte dello stato siriano, dunque, può essere screditato attraverso argomentazioni politiche ma non può essere pregiudicato da standard legali.

L’autoamministrazione in Rojava, ovviamente, potrebbe rimarcare la propria autorità nell’agire come rappresentante di una parte significativa del paese in mezzo al caos della guerra, e perciò rivendicare il diritto di cooperare con qualsiasi potere esterno reputato necessario (nonostante il fatto che non venga richiesta una separazione o lo smembramento dello stato, ma un sistema federale). Questa posizione, opposta a quella dello stato siriano, non può essere contemplata al corpus di norme del diritto internazionale a meno che qualcuno riconosca la Federazione Democratica come entità sovrana. Considerando che il riconoscimento di questa sorta di proto-stato va in controtendenza anche rispetto ai desideri della leadership curda, è abbastanza al di fuori degli scenari più probabili.

La dialettica attualmente in atto fra governo siriano e PYD può essere osservata nei termini seguenti: più Damasco si sente incoraggiata a porre fine ad ogni negoziato per il federalismo o per la de-centralizzazione del potere, più il Rojava cerca di sfruttare la presenza USA nel paese in quanto garante per facilitare i propri obiettivi al tavolo delle negoziazioni – o anche solo per ottenere un posto a quel tavolo, per cominciare. Però, più le YPG/J sembrano intenzionate a mantenere un rapporto con Washington a questo fine, più spingono il governo siriano ad adottare una posizione sempre più ostile verso le forze curde.

Perché gli USA sono ancora in Siria?

L’amministrazione del Rojava ha ampiamente portato avanti la posizione per cui, con la sconfitta dell’ISIS, non dovrebbe più esistere alcuna base per la presenza di potenze straniere sul suolo siriano. In un’intervista pubblicata sul sito ufficiale delle YPG il 22 novembre, Nesrin Abdullah, portavoce delle Unità di Protezione delle Donne (YPJ) ha detto: “Una volta che l’ISIS sarà completamente sconfitto non ci sarà motivo, per i poteri internazionali, di restare in Siria. Dovranno prendere parte al dialogo fra le due fazioni se non vorranno farsi da parte”.

Due mesi dopo gli USA sono ancora in Siria, comunque. Infatti, recentemente Russia, Iran e Turchia hanno reagito unitamente e con rabbia alla notizia che Washington equipaggerà un più incisivo “esercito di frontiera” di 30.000 elementi nel nord della Siria, di cui farebbero parte circa 15.000 membri delle YPG. Per Russia, Iran e Turchia una forza simile è causa di grande preoccupazione. La veemente opposizione turca all’idea è forse la più ovvia. Il presidente Erdogan, sul punto di sferrare un attacco al cantone di Afrin nel Rojava, è furioso per la collaborazione fra i suoi alleati NATO e quello che Ankara vede come un’estensione del PKK. L’Iran, scosso dalle recenti ondate di protesta entro i propri confini, che hanno visto l’attiva partecipazione della popolazione curda e del PJAK (Partito per una Vita Libera), alleato del PKK/PYD, è tutt’altro che entusiasta di vedere qualsiasi forza di sicurezza in Siria che incoraggi le aspirazioni curde in Iran. La Russia, nonostante la cooperazione con il PYD e le SDF in Siria, si oppone alla costruzione di strutture di sicurezza parallele prima che una soluzione politica sia raggiunta. Per le YPG, questo “esercito di frontiera” sembra essere una questione di vita o di morte per certi versi. Le contraddizioni della lotta contro il fascismo e per la sopravvivenza hanno portato il movimento rivoluzionario curdo ad allearsi con lo stesso nemico che per 30 anni ha spalleggiato la Turchia nel tentativo di distruggerlo. Il Movimento Curdo per la Libertà è senza dubbio ben conscio dei pericoli inerenti una simile relazione con un “nemico-amico”.

In ogni caso, è come se ora quei pericoli fossero più pronunciati rispetto al passato. La purezza ideologica ovviamente svanisce durante conflitti intensi. La necessità di sopravvivere supera tutte le altre considerazioni. Allo stesso tempo, anche un simile “esercito di confine” sembra andare contro l’ideologia del movimento curdo, che richiama ad una soluzione “senza-stato” e alla fluidità dei confini. Questo stadio della guerra siriana è un test per la leadership del Rojava nella misura in cui questa è disposta a compromettersi per continuare ad esistere. Entro quali limiti questo significhi una possibile liberalizzazione di principi con l’obiettivo di modellare una migliore relazione con l’imperialismo, rimane fonte di grande preoccupazione.

L’esperimento del Rojava, forse una delle rivoluzioni sociali maggiormente progressiste in atto nel mondo, merita la nostra solidarietà in tutti i frangenti più cruciali. Questo è proprio uno di quei frangenti, con l’attacco minacciato da Erdogan verso Afrin – non solo attraverso l’appoggio degli islamisti ma tramite l’esercito turco occupante.

Allo stesso tempo, è dovere di coloro che a sinistra supportano la rivoluzione in Rojava ideologicamente ma sono diffidenti verso il ruolo USA di esprimere una solidarietà che non segua acriticamente ogni decisione presa dalla Federazione Democratica. Senza dubbio abbiamo bisogno di comprendere perché certe decisioni siano prese ma ciò non significa necessariamente che dovremmo continuare a perorare posizioni che libereranno definitivamente la regione dagli USA e che contribuiranno alla sovranità della Siria dopo la guerra. Dopotutto, i veri amici non supportano le posizioni fallaci ed il comportamento dei propri compagni quando questi prendono decisioni dannose. Dunque, è importante per noi mantenere uno spirito critico, seppure “compagnesco”, attraverso gli alti e i bassi della rivoluzione e della guerra.

Afrin modificherà l’equazione?

La vera natura degli USA è stata confermata nei giorni recenti a fronte della minaccia turca verso Afrin. Ci si sarebbe potuti aspettare che, dato l’apparente rafforzamento del fronte SDF-USA in funzione del nuovo progetto “esercito di frontiera”, Washington avrebbe espresso la propria opposizione verso i piani di Erdogan. Invece Ryan Dillon, portavoce della coalizione guidata dagli USA, ha dichiarato ad Anadolu, l’agenzia stampa ufficiale della Turchia, che “Non saremo operativi ad Afrin. Stiamo supportando i nostri alleati nei combattimenti contro le forze dell’ISIS rimanenti lungo l’Eufrate, in particolare nell’area a nord di Abu Kamal, sulla riva orientale del fiume”.

La posizione degli Stati Uniti sembra orientata al non intervento in prevenzione di un attacco turco ad Afrin – che potrebbe sfociare in un nuovo raccapricciante capitolo della lunga storia degli attacchi genocidi di Ankara contro le terre curde. La portavoce delle YPJ Abdullah ha già replicato in novembre: “Sia la Russia che le forze di coalizione saranno responsabili dei nuovi massacri ad Afrin se manterranno il proprio silenzio sugli attacchi turchi”. Negli ultimi giorni Sipan Hemo, comandante generale delle YPG ha detto: “Se lo stato turco oserà condurre una simile aggressiva invasione ad Afrin, vorrà dire che ognuno avrà responsabilità in questa decisione.  Se Iran, Russia, Siria o addirittura USA non dovessero approvare una simile decisione, in un modo o nell’altro, la Turchia non potrebbe portare a termine l’attacco perché il diritto internazionale non lo consentirebbe, dato che gli stati hanno molte leggi apposite. Se la Turchia dovesse andare avanti, significherebbe che Russia, Iran, Sia e USA sono conniventi. Non abbiamo informazioni concrete al momento, e stiamo parlando di eventi che potrebbero evolversi velocemente. Se gli stati menzionati non manifesteranno un atteggiamento serio in questo caso, i curdi li riterranno tutti responsabili”.

Lo status di Afrin, dunque, è cruciale nella guerra siriana che dura da ormai quasi sei anni. Potrebbe realmente determinare un ulteriore affievolirsi della guerra o un acceleramento nel corso del 2018. In particolare, la posizione della Russia e degli USA verso un possibile attacco turco alle YPG/J sarà determinante nel sancire il futuro del rapporto fra le forze curde e queste due potenze.

Fonte del testo:

http://theregion.org/article/12520-frenemies-is-the-ypg-u-s-relationship-deepening-or-crumbling

 


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