Verona: Italia agli italiani

Articolo tratto dal foglio aperiodico veronese “La Morascada”

Quella che oggi viene chiamata Libia è un territorio in cui gli stati italiano, francese e inglese si contendono il controllo  di tre macroregioni, rispettivamente la Tripolitania, il Fezzan e la Cirenaica. La stabilità economica della Tripolitania è l’obiettivo dichiarato di un manipolo di aziende, ENI in primis, che considera quelle terre delle vere e proprie miniere d’oro. Nel 2016 Paolo Scaroni, dirigente d’azienda già amministratore delegato Enel ed Eni tra il 2002 e 2014, dichiara apertamente che la Libia va considerata come «prima emergenza nazionale» per l’Italia «perché è casa nostra». Oggi la popolazione libica guarda alle elezioni italiane con preoccupazione, a seguito di alcune dichiarazioni di candidati premier.

Una fra tutte quella di Simone Di Stefano, leader del partito fascista Casapound, il quale ha affermato senza vergogna che si dovrà «mandare il nostro esercito e rimettere in piedi uno stato sovrano dove impiantare le nostre aziende» ovviamente «proteggendo le risorse di ENI ovunque esse siano». Il discorso apertamente colonialista è qualcosa di ormai palpabile. Ma, come spesso succede, le parole della politica arrivano con un certo ritardo rispetto ai fatti dell’economia.

Il governo italiano ha recentemente raggiunto accordi con il clan Dabashi, che controlla il traffico di uomini della zona di Sabratha – 70Km da Tripoli e snodo della partenza di migranti verso il mediterraneo – e anche il traffico di carburante. La milizia Dabashi avrebbe ricevuto non solo cinque milioni di euro ma anche la possibilità di avere un ufficio nel compound di Mellitah, la società nata dall’accordo tra ENI e NOC (la compagnia petrolifera nazionale libica). [7] La milizia già controlla dal 2015 la strada limitrofa, per un accordo raggiunto allora proprio con Mellitah Oil&Gas. Ma ENI è solo una delle grandi imprese italiane insediate in Libia. Si va dal petrolio fino alle telecomunicazioni passando per i trasporti, l’ingegneria, la meccanica industriale, le costruzioni e le opere civili. E sulla scia dei grandi colossi (quelli a cui ogni tanto viene sequestrato qualche “tecnico”), branchi di aziende più modeste lavorano sodo per creare nuovi progetti e accaparrarsi appalti sparsi per tutto il territorio libico e non.

È di soli 2 anni fa la notizia che rivelava la Sirai, azienda di Porto Marghera che lavora anche per ENI, vincitrice di un appalto da 150mln per costruire 90 pozzi d’estrazione d’acqua nel territorio di Zintan. L’accordo è stato preso ad Hammamet in Tunisia, da dove sostanzialmente passa ogni possibilità d’azione imprenditoriale in territorio libico.
Circa un anno fa persino Flavio Tosi volò tutto contento alla città di Zintan insieme a rappresentanze Amia e altre imprese quali Grandi Lavori Fincosit, Seli Overseas, Impresa Pietro Cidonio, Unieco, Gemmo e Laurenti. Scopo del viaggio, un incontro per valutare «l’assegnazione di alcuni lavori di costruzione di infrastrutture per la città di Zintan», e precisamente «la costruzione di un nuovo ospedale da 400 posti, otto nuove scuole, la realizzazione di un nuovo centro commerciale, strade, un albergo e un nuovo municipio». Con la fantomatica chiamata a “risollevare” le comunità, gli imprenditori si affaccendano, scartoffiano e stringono mani, calcolano e firmano amicizie, costruiscono e performano una civiltà.


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