Tratto da Finimondo.
In origine pubblicato su: Avis de tempêtes, n. 18, 15 giugno 2019
Dopo l’incendio parziale della cattedrale di Notre-Dame de Paris, oggetto di un gran profluvio di lacrime lo scorso aprile, lo Stato non ha mancato di appellarsi ad una rinnovata unità nazionale approfittando del 75° anniversario dello sbarco in Normandia. Alla presenza di un bel mondo composto da assassini gallonati ed altri capi di Stato, si è svolta in particolare una cerimonia di consegna di berretti verdi ai giovani ammessi nelle truppe d’elite dell’esercito francese (i commando della Marina). In questa occasione, sarebbe probabilmente sembrato sconveniente collegare i due avvenimenti di aprile e giugno, sottolineando che ovviamente nella storia c’è cattedrale e cattedrale. Come quella di Parigi, il cui incendio accidentale può essere trasformato in dramma esagonale destinato a far serrare i ranghi, o come quella sempre gotica di Rouen, il cui incendio doloso di settantacinque anni prima è da dimenticare, in quanto causato da un esercito alleato. Sventrata per la prima volta da sette missili durante i bombardamenti anglo-americani del 19 aprile 1944, quando 6.000 bombe piombarono sulla città, anche la sua guglia di Saint-Romain venne bruciata il primo giugno di quell’anno dagli stessi aerei militari.
Radere al suolo per tre quarti delle città in pochi giorni, giustificati dal diritto e dalla libertà come nel caso degli Alleati in Normandia contro Caen o Le Havre, poi in Germania contro Dresda, e fino all’apice dell’orrore atomico in Giappone contro Nagasaki e Hiroshima, è diventata da allora una tecnica quasi banale di terrorismo di Stato. Tra i massacri aerei praticati regolarmente in varie occasioni (se quelli di Assad, della Russia e della NATO in Siria significano qualcosa per voi, o quelli dei clienti dalla Francia nello Yemen), inutile precisare che i «capolavori d’arte e cultura» distrutti incidentalmente sembrano essere ben poca cosa. La famosa frase di Durruti sulle rovine che non ci spaventano si basava già sulla medesima constatazione, poiché non concerneva le azioni dei rivoluzionari, ma quelle di un nemico disposto a tutto pur di preservare il suo potere, compreso il precipitare nel fascismo: «Siamo noi gli operai, quelli che fanno funzionare le macchine nelle industrie, che estraggono il carbone e i minerali dalle miniere, che costruiscono le città… perché allora non ricostruiamo ciò che è stato distrutto in condizioni migliori? Noi non abbiamo paura delle rovine. Sappiamo che erediteremo solo macerie, perché la borghesia cerca di demolire il proprio mondo prima di abbandonare la scena della storia. Ma ripeto che non abbiamo paura delle rovine, perché portiamo un mondo nuovo nei nostri cuori».
Al di là delle guerre, lo Stato e la Chiesa non hanno comunque mai prestato molta attenzione alla demolizione di vecchi edifici storici, di qualunque tipo fossero (i loro — secondo la moda del momento o per esibire un potere maggiore — o quelli dei loro predecessori e dei loro concorrenti, per non parlare di quelli dei poveri), pur di erigerne di nuovi. Il loro problema era piuttosto che non fosse direttamente la popolazione insorta a radere al suolo i loro palazzi. Per rimanere nell’ambito della superstizione, diverse cattedrali gotiche non hanno forse sostituito un precedente edificio romanico, il quale a sua volta ha rimpiazzato un luogo di culto pagano di cui si volevano cancellare le tracce? La cattedrale di Saint-Etienne del 1085 non era stata distrutta a Besançon nel 1675 dall’architetto di Luigi XIV per costruire al suo posto una fortezza?
Passi da parte del dominio, ma come spiegare, d’altra parte, che accanto a rari individui che manifestano la loro gioia dopo l’incendio della cattedrale di Parigi (ad esempio con quegli adesivi debitamente illustrati che proclamano «la sola chiesa che illumina è quella che brucia»), molti sudditi dello Stato si siano indignati per la sua parziale distruzione? A causa del selfie turistico dell’anno precedente che era stato appena rovinato in quanto non più corrispondente alla realtà? Può darsi. In ogni caso, sono soprattutto dei sermoni sul «patrimonio perduto della nazione» a venire diffusi a destra e a manca, dal lavoro al supermercato, per giustificare questa comunione laica.
Non per niente i concetti di patrimonio e di monumento storico hanno cominciato a diffondersi largamente solo nel 1790: con la confisca dei beni della Chiesa, poi di quelli dei nobili emigrati e della monarchia, i nuovi padroni repubblicani a capo dello Stato si sono ritrovati schiacciati tra devastanti tumulti popolari e continuità dell’autorità. Con la Commissione dei Monumenti e poi con la Commissione delle Arti, lo Stato si è poi arrogato il monopolio della decisione e della selezione di ciò che andava distrutto dell’Antico Regime e ciò che i suoi dirigenti intendevano conservare. Riferendosi ad una tribù germanica che saccheggiò Roma nel 455, un deputato forgiò addirittura il neologismo di «vandalismo» nel 1794 per stigmatizzare quei rivoluzionari che continuarono la distruzione del vecchio mondo (comprese le cattedrali di Liegi e di Bruges). Dalla Grande Rivoluzione alle insurrezioni che hanno attraversato il diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo, la Repubblica ha impiegato molto tempo ad imporre la sua nozione di monumenti sacri di fronte ai furori iconoclasti e al vandalismo di masse insorte che tornavano incessantemente a saccheggiare ciò di cui era diventata garante.
Tornando a Parigi e alla sua cattedrale, la cui demolizione era stata addirittura considerata dalla città intorno al 1830 in quanto fatiscente e ormai di ben poco interesse per moltissime persone (un’altra decina erano state vendute o demolite dopo la rivoluzione), essa divenne «patrimonio nazionale», «eterno simbolo della nazione» e altre stronzate del genere solo in seguito alla contemporanea decisione dello Stato di ricrearla (inventando la sua guglia che si è consumata lo scorso aprile, aggiungendo una sagrestia e un sagrato sei volte più grande dell’originale, oltre alle sue famose chimere) e di radere al suolo tutti gli altri edifici storici dell’île de la Cité in cui si trova. E questo su ordine di un famoso barone [Georges-Eugène Haussmann] che Benjamin Péret descriveva come colui che aveva «pettinato Parigi con le mitragliatrici». Se questa cattedrale è ancora in piedi, è soprattutto un riflesso dell’alleanza forgiata tra il 1830 e il 1880 dai cattolici che volevano riconciliare il paese con una pietà perduta, i monarchici che cercavano di ricongiungersi con un passato vicino e una borghesia liberale che stava ricostruendo la vecchia capitale secondo le sue esigenze militari e commerciali, conservando qua e là alcune vestigia che ancora la interessavano.
Perché, in fondo, che cos’è una cattedrale, e perché lo Stato l’ha preservata attraverso le epoche, mentre man mano demoliva spudoratamente la maggior parte degli altri edifici? Come una prigione, una cattedrale non è un simbolo, è prima di tutto un edificio del potere con una funzione ben precisa (tortura fisica punitiva in un caso, tortura morale e psicologica preventiva nell’altro). Una cattedrale è una struttura progettata e utilizzata da e per i potenti per celebrarli, e contro gli individui che vorrebbero dominare, dirigere, controllare, punire e formare nella carne e nello spirito. Una cattedrale in funzione è materia vivente, non solo un mucchio di pietre e vetri, è la difesa di un rapporto sociale che perpetua sofferenze e miserie infinite, è un intero mondo di oppressione, è una continuità dell’autorità attraverso il tempo.
In quel di Parigi, per tornare all’inizio, è là che il presidente della Repubblica Reynaud si recò nel maggio 1940 per ottenere la salvezza della nazione, è dove Pétain partecipò, nell’aprile 1944 accompagnato dal cardinale arcivescovo della capitale, ad una messa solenne in memoria delle vittime dei bombardamenti anglo-americani, è dove De Gaulle fece celebrare una messa della vittoria quattro mesi dopo, in agosto, e dove nel febbraio 1951 il nuovo arcivescovo di Parigi fece applaudire il maresciallo Pétain da tutti i fedeli in ricordo della battaglia di Verdun. È in questa cattedrale che furono celebrate prima le esequie nazionali del ministro della Propaganda di Vichy ucciso dalla Resistenza il primo luglio 1944 (P. Henriot), e poi quelle di De Gaulle nel dicembre 1970 o di Mitterrand nel gennaio 1996, davanti a un parterre di capi di Stato.
Una prigione o una cattedrale che restano in piedi durante un’insurrezione sono un insulto permanente alla libertà in azione e un’offesa a qualsiasi altro avvenire. Che questi edifici siano dotati di vili torrette di guardia o da incantevoli guglie non fa differenza, raderle al suolo è il minimo che meritano. Non sono luoghi neutri o riutilizzabili per altri scopi, in quanto ogni muro della loro architettura trasuda sia il potere degli uni che le catene di tutti gli altri. Accanto agli incendi del Municipio, del Palazzo delle Tuileries, del Tribunale, della Prefettura, del Ministero delle Finanze, del Palazzo d’Orsay, del Palazzo Reale e di una parte del Louvre, i comunardi non si erano sbagliati durante la settimana sanguinosa dal 21 al 28 maggio 1871, prendendo di mira anche la cattedrale.
Notre-Dame de Paris è stata oggetto di un incendio pianificato in concomitanza con quelli di altri luoghi di potere situati poco lontani, dopo che carri di polvere nera, di catrame, di essenza di trementina e di petrolio vi erano stati depositati preventivamente. Quel mercoledì 24 maggio 1871, sotto la pressione delle truppe di Versailles che tre giorni prima erano entrate nella capitale a prezzo di feroci combattimenti, alcuni comunardi avevano ammucchiato le centinaia di panche e sedie presenti in ogni angolo di Notre-Dame per accendere fuochi costituiti a forza di barili di petrolio. Quando le fiamme cominciarono a svolgere il loro compito nel tempio del rospo di Nazareth, lo sfortunato intervento di alcuni internisti farmacisti accorsi dal vicino ospedale riuscì a far spegnere quel memorabile tentativo.
E se? E se l’incendio di Notre-Dame il 15 aprile 2019 non fosse stato accidentale? Se fosse stato, come nel passato, opera di anti-autoritari, con tutte le conseguenze in termini di esecrazione popolare e di repressione? Quanti di noi difenderebbero il fatto che si trattava di un patrimonio nazionale da demolire, di un monumento storico da eliminare? Abbastanza in ogni caso da affermare che non abbiamo paura delle rovine da noi stessi generate contro le strutture del potere.
A volte basta una semplice scintilla.