Zustissa mala
Ki sa zustissa est mala è una sorta di avvisaglia, un eco che abbiamo sempre sentito dai nostri avi fino ai giorni nostri. La storia della nostra terra è piena di episodi che certificano la valenza di questo modo di dire e di pensare; rappresaglie, pestaggi e arresti hanno sempre dimostrato la prepotenza dello Stato, il suo tallone di ferro sulle popolazioni e le sue modalità di attacco e di difesa, usando la divisa e i suoi burocrati come dei veri e propri devastatori sociali. I nostri paesi sono pieni di episodi dove sa zustissa mala ha cercato di instaurare il suo dominio, spesso riuscendoci, ma altrettanto spesso rimanendo nella difensiva, accusando i colpi e arretrando di malavoglia, ed è in questi casi che nasce la logica vendicativa dello Stato, costruendo i suoi percorsi, accentuandone la sua malvagità. Negli ultimi mesi i suoi artigli si sono stretti su delle lotte più rappresentative degli ultimi tempi, quella dei pastori e di chi ha partecipato solidalmente con loro, e quelle cosi dette antimilitariste, che erano riuscite, in parte,ad ottenere una consapevolezza nuova, fatta di concretezza, valenza e dignità e guarda caso i due contesti si sono incrociati, dal punto di vista repressivo, trovando delle soggettività coinvolte in entrambe le lotte, considerate pericolose e da fermare. Per mesi la macchina repressiva ha sguinzagliato tutta la sua operatività, seguendo, ascoltando, provocando o perquisendo il suo nemico principale: chi crede nella giustizia sociale, chi è contro la logica guerrafondaia e chi è convinto esista un’alternativa autodeterminata e dignitosa a questo sistema criminale, gestito dallo Stato e dalle sue economie di sfruttamento dove l’uomo, l’ambiente naturale e le sue risorse sono pedine per il profitto e per il capitale. Non ci interessa la dicotomia colpevoli o innocenti o la vulgata giornalistica, fa parte della logica zustissera del potere, ci interessa sapere che esiste nella nostra terra chi ha deciso, ognuno come meglio crede, kin sas vonas o kin sas malas, di contrapporsi a questa esistenza di dominio e che è disposto a farlo seriamente.
Nurkùntra
______________________________________________________
In una tenace ricerca dell’orizzonte
“Con la morte nel cuore correrò per tornare,
dove il giorno rivive sul profilo degli alberi”
iosonouncane
Ci chiamano terroristi, lo fanno insistentemente. Perché lo fanno?
Lo fanno per quello che siamo, per le idee che abbiamo e perché viviamo per vederle realizzarsi. Vogliono provare a descriverci come belve sanguinarie, amanti della violenza, con il culto dello scontro ad ogni costo. Niente di più lontano.
Chi sceglie di utilizzare la violenza lo fa soltanto perché costretto dalle vicende che ci circondano, perché non riesce più a starsene con le mani in mano di fronte all’ennesima notizia che parla di guerra, di devastazione dell’ecosistema, di oppressione o discriminazione.
Questo mondo è marcio, ha le radici marce, putride. Non crolla solo perché tenuto insieme dalle corde d’acciaio delle leggi e della paura del violarle, di tutti gli sbirri – in divisa e non – che sono pronti a infamarci, ad arrestarci e sbatterci in carcere.
Ma questo non basterà.
Non è mettendo in carcere chi lotta per cambiare questo mondo che lo si migliorerà, anzi.
Non è mettendo in carcere chi lotta per la libertà che questa si realizzerà.
Anche se ci arrestano le nostre idee rimangono libere.
Sono almeno 150 anni che gli stati sovrani provano a sconfiggere gli ideali di libertà e uguaglianza, per farlo ne hanno combinate di tutti i colori, si sono spinti fino a uccidere e torturare; migliaia di anni di carcere subiti dalle migliaia di compagni arrestati non sono bastati a spaventare le nuove generazioni che nonostante tutte le difficoltà continuano a lottare nel solco del sogno tracciato dai loro antenati.
Il potere costituito – dichiaratamente democratico – ci vuole spaventare, ci vuole arrestare, a volte ci riesce, ma la fibra che ci contraddistingue è quella delle teste dure, di quelli che hanno voglia di resistere, che in mezzo alla tempesta si tengono gli uni agli altri e non lasciano indietro nessuno. E se all’alba del giorno dopo la nostra nave sarà semidistrutta, la ricostruiremo più forte e robusta di prima e il timone segnerà di nuovo la rotta dell’orizzonte.
Questo potere chiamato Stato italiano ha affibbiato in questi mesi un sacco di accuse per 270bis, queste accuse sono rivolte a compagne e compagni coraggiosi, intrepidi e generosi, che lottano contro la guerra, contro il carcere, contro l’idea di un mondo che deve vivere attraverso la sopraffazione di uno sull’altro e lo sfruttamento intensivo del pianeta. Non ci interessa sapere se siano innocenti o colpevoli, hanno tutta la nostra incondizionata solidarietà.
Rispediamo al mittente l’accusa di terrorismo, non solo perché non ci appartiene, ma perché è lo stato il vero terrorista, da sempre.
Ridiamo vigore alle lotte, esprimiamo in questo modo la solidarietà a chi è stato colpito dalla repressione.
E se anche ogni tanto il cuore si appesantisce, non perdiamo mai la voglia di raggiungere l’orizzonte.
A tutti i compagni arrestati e perseguitati.
Compagne e compagni ostinati,
Cagliari 2019
______________________________________________________
Con il cuore e le tronchesi
Nel cammino che conduce all’autodeterminazione delle nostre vite e della terra in cui viviamo è molto probabile incappare in ostacoli concreti. Ostacoli come reti e filo spinato, divise ed esercitazioni, guerre nel nome del progresso e della sicurezza. Spesso ci sembrano insormontabili perchè radicati nel territorio o perchè ormai accettati passivamente. A volte, pero’, quegli ostacoli vengono scavalcati, con il cuore e delle buone tronchesi. A volte oltre quegli ostacoli arriva la forza di volontà, qualche pietra e le gambe accelerano. E ti ritrovi a bloccare un’esercitazione NATO e a rendere quell’ostacolo un semplice imprevisto tra te e un mondo migliore.
É proprio ciò che è successo in Sardegna nel periodo che va dal 2014 al 2017, quando la lotta antimilitarista ha scosso sentimenti e passioni, divenuti poi azioni concrete davanti a quei poligoni. Sono anche quegli anni ad averci insegnato che bloccare la macchina della guerra è possibile, e che in fondo basta uno slancio di cuore e delle buone tronchesine nelle mani per violare quelle fortezze.
Ora le istituzioni presentano il conto: la Procura cagliaritana ha emesso un avviso di chiusura indagini per 45 persone, cinque delle quali accusate secondo l’articolo 270 bis (associazione sovversiva con finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico) mentre le altre 40 sono imputate per reati che sarebbero stati compiuti durante le diverse iniziative di lotta contro le basi militari.
Non staremo qui a parlare di colpevolezza o innocenza, la calorosa rabbia di chi vede nelle basi militari un sinonimo di oppressione e controllo ha già germinato, con modalità diverse ma convergenti. Siamo convinti che bloccare le esercitazioni di chi prepara le guerre sia giusto, poco importa se le pratiche sono uscite dagli argini della legalità, sopratutto perchè è in nome di questa cosiddetta legalità che gli aerei possono bombardare, che l’RWM può produrre esplosivi da vendere a chi più ne utilizza, che chi scappa dalla guerra e dalla miseria può essere rinchiuso in lager moderni… e la lista sarebbe tanto lunga quanto sanguinosa.
La Sardegna per le sue caratteristiche è gravata da basi militari, carceri, industrie inquinanti e turismo sfrenato, opporsi a tutto ciò è un dovere se crediamo che le comunità che vivono questa terra possano un giorno definirsi libere. Adesso, con gran clamore mediatico, ci chiamano terroristi ed eversori perchè abbiamo provato a mettergli i bastoni tra le ruote. Domandarsi chi sia a portare il “terrore”, se chi lotta contro le basi militari o chi diffonde la guerra in giro per il mondo, significa mettere in dubbio l’immagine dello Stato come portatore di pace. Tentano di dividerci dicendo che sarebbe una fantomatica “associazione sovversiva” ad aver orchestrato tutta la lotta di quegli anni, cercando di ridurre in misere carte questurine tutta l’emozione e la determinazione che centinaia, e a volte migliaia, di persone hanno saputo esprimere davanti al colosso militare.
Ci sono ancora troppi chilometri di reti e filo spinato, troppe divise e carri armati, troppo territorio sottrattoci dai militari, c’è ancora troppa voglia di libertà dentro di noi. Ora più che mai è importante dimostrare che non li vogliamo, che quelle pratiche e quella grinta sono ancora presenti e, sopratutto, che i compagni indagati non sono soli.
Assemblea per l’autodeterminazione