Il refrattario per ragione di coscienza non può abbandonare la sua responsabilità nelle mani dei superiori per diventare una macchina di morte.
Vuole conservare l’intero possesso di se stesso e la completa responsailità dei suoi atti.
Jules Humbert-Droz
Pubblichiamo qui uno scritto su Augusto Masetti (Proletari contro la guerra. La campagna per Masetti e la Settimana Rossa), anarchico che sparò ad un suo ufficiale rifiutandosi di partire per la Libia. Nello scritto si percepisce il peso che il movimento rivoluzionario italiano e non solo, diede a questo fatto sostenendo il compagno e propagandando le idee libertarie in svariati paesi contro la guerra in tutte le forme. La solidarietà fù estesa e tocco svariati raggruppamenti politici, non per forza anarchici, dove tutti si unirono a sostenere il coraggio di Augusto e la sua famiglia.
Il contesto internazionale del movimento era vasto e complesso, gli strumenti di comunicazioni non sono quelli di oggi, eppure le proteste, le azioni dell’epoca erano a passo con i tempi della lotta e degli avvenimenti. La Settimana Rossa fa l’ultimo scossone da parte del proletariato e del movimento rivoluzionario alla classe borghese prima dell’inizio della Grande Guerra.
Abbiamo quindi deciso di pubblicare anche un articolo uscito sul 16 del giornale anarchico “Invece” nel 2012, che tratta proprio della Settimana Rossa integrandolo allo scritto su Masetti, Ai confini della memoria. La Settimana Rossa, 7- 14 giugno 1914.
Per scaricare lo scritto in pdf: proletari-contro-la-guerra-note-in-calce
Proletari contro la guerra. La campagna per Masetti e la Settimana Rossa *
Nel giugno 1914, quando i moti della Settimana Rossa scuotono il Paese, colto di sorpresa in una delicata fase di transizione, le luci si vanno spegnendo sul mito della belle époque, ma le classi dirigenti sembrano muoversi ancora sui ritmi del can can e offrono di sé un’immagine frivola e disattenta. E’ probabile, però, che a noi sia giunta la percezione deformata di una proiezione esterna. In realtà, lo strappo c’è stato e il rifiuto della mediazione giolittiana chiude un’epoca. Giolitti ha segnato la crescita e il modello di sviluppo economico, ma per la borghesia, tornata alle ambizioni imperialistiche, è ormai solo un freno. A ben vedere, i «padroni del vapore» sanno ciò che vogliono, hanno colto per tempo segnali di svolta nelle linee di tendenza della diplomazia internazionale e sono cosi determinati, da rompere con Giolitti proprio quando il vecchio statista ha avviato una politica estera di ispirazione espansionistica, adattando con accortezza e tempismo le scelte economiche e la pratica di governo al contesto interno e internazionale1. Per il pragmatico Giolitti, però, l’Italia è una potenza di media grandezza; la borghesia vuole, invece, che entri da protagonista nel gioco di quelle grandi e non si fida più dell’uomo di Dronero. La rottura è nei fatti.
Per conto loro, le classi lavoratrici organizzate puntano al riscatto sociale e rifiutano la guerra in nome dell’internazionalismo operaio e socialista. Proprio sul problema della guerra, però, il PSI ha una posizione debole e non a caso, al congresso di Ancona, nell’aprile 1914, riformisti e rivoluzionari si sono trovati sulla stessa linea. Pochi mesi prima, in vista di un congresso in cui «tra gli argomenti più importanti […] vi è il 7° articolo dell’ordine del giorno: quello che tratta il problema degli armamenti», Lazzari, ha chiesto al sindacalista rivoluzionario Silvano Fasulo di essere «relatore sul suddetto argomento per il quale abbiamo pure pregato il compagno deputato Treves di fare una relazione secondo il suo punto di vista». Accettato l’incarico, Fasulo, ha scritto ad Albert Gobat, Direttore del «Bureau International de la paix» e uomo di punta del movimento pacifista mondiale, che gli ha indicato il limite invalicabile che ha reso inutili i Congressi per la pace: «le prejugé qu’aucune décision ne doit être prise si elle ne réunite pas l’unanimité». In quanto a Treves, il 28 febbraio 1914 ha scritto a Fasulo: «Caro Fasulo, non desidererei di meglio che ci fosse, per tutti e due, una sola relazione: tua! In materia di internazionalismo e antimilitarismo non temo nulla, salva la simultaneità assicurata nel movimento; se no, no! Ma la simultaneità non solo nell’ordine del giorno, ma nella realtà storica e politica del movimento. Non dubito, del resto, che saremo d’accordo. Ma la base e la trama anzi della relazione deve essere l’antinazionalismo internazionalista ed antimperialista». Ricevuta dal Fasulo una bozza di relazione, Treves ha aggiunto «osservazioni di metodo», e ha ribadito il suo consenso: «Io accetto ogni proposito più rompicollo con la sola riserva della simultaneità pratica». Al congresso c’è stata così un’unica relazione
per «i compagni del Nord e del Sud: quella rivoluzionaria […] e quella moderata»2. Per una volta, però, l’unità non è stata segno di forza ma prova di debolezza e tutto lascia credere che per le classi subalterne ci siano scarse possibilità di giungere a cambi di rotta radicali come quelli che sta realizzando la borghesia, sostituendo Giolitti con Salandra: mancano l’esperienza, gli automatismi collaudati e soprattutto uomini cui affidare il timone: il gradualismo riformista si è ridotto da tempo ad acquiescenza, l’intransigenza non va oltre le affermazioni di principio e in campo sindacalista Labriola, De Ambris, Corridoni e compagni sono ormai a un passo dall’interventismo. L’unità di classe, che alla base si potrebbe anche costruire, al vertice è una chimera. «Guerra per la rivoluzione» e «guerra per la nazione» saranno presto maschera e volto di spurie commistioni.
L’equivoco ha radici lontane e non solo italiane. In Francia, sin dal 1892 il socialista Jaurés ha cantato le lodi dei padroni, scrivendo che
«una classe dirigente è tale soltanto se è coraggiosa. In qualsiasi momento della storia le classi dirigenti si sono formate con il coraggio e la consapevole accettazione del rischio […]. Allorché gli operai accusano i padroni di voler guadagnare per divertirsi, non comprendono appieno l’anima padronale. Vi sono, non c’è dubbio, padroni che si divertono, ma ciò che essi vogliono anzitutto, quando sono veramente padroni, è vincere»3.
Paradossalmente, ciò che Jaurés scrive per i padroni si può agevolmente riferire anche ai dirigenti del movimento operaio, a molti dei quali, però, mancano sia la consapevolezza della necessità di rischiare, che il coraggio di farlo.
Per contro, compatta e consapevole della posta in gioco, l’alta borghesia, liquidando Giolitti, ha già disegnato i suoi piani. Progetti ambiziosi – dopo l‘Africa si pensa ai Balcani – ma c’è la spregiudicatezza che basta a non dar peso ai vincoli delle alleanze. L’Italia è nella Triplice con l’antico nemico asburgico per un patto difensivo che potrebbe tenerla fuori della guerra – e davvero per un po’ se ne starà a guardare – ma dei patti ci si cura poco. Il nazionalismo pesa poco, ma piccola e media borghesia, finora incerte tra vocazione reazionarie e tiepide, confuse aspirazioni a una rottura rivoluzionaria, si accingono a passare il guado.
L’antiparlarmentarismo, le critiche alla burocrazia, l’insofferenza per la mediazione politica e sindacale sono posizioni speculari, estremi che si toccano. La sconfitta operaia del giugno 1914 è, in questo senso, la linea di confine che si apre e compone fratture: su quella linea aperta si trovano intellettuali di destra e «sovversivi» di sinistra, la reazione di D’Annunzio, Corradini, Marinetti e Papini, che ha invocato sindacati gialli in funzione antisciopero, e la «rivoluzione» di De Ambris, Corridoni e Mussolini, che allo sciopero generale affidano le sorti dei proletari. Non è il fascismo, s’intende, ma alcuni dei suoi semi cadono su un terreno fertile e germoglieranno.
Alla vigilia di un conflitto che gran parte del Paese non vuole, ma subirà impotente, «gli operai consapevoli» si ribellarono. Ha ragione Fatica: «la Settimana Rossa, esplosa in
tutte le grandi e piccole città, rientrava nella tipologia dei tentativi concreti» di opporsi e lottare.4 A parte Malatesta, Borghi e il giovane Nenni, mancavano i capi e nelle giornate di giugno del 1914 Salandra, alle sue prime prove, riempì di inquietanti segnali il malinconico tramonto dell’età di Giolitti. A luglio non c’era spazio per dubbi: avevamo un governo apertamente classista. Ci avrebbe condotto a una guerra feroce, da cui nacquero la crisi dello Stato liberale, un aspro conflitto sociale e infine il fascismo. La Settimana Rossa fu evento breve, ma non privo di peso e conseguenze e non è facile capire perché sia apparsa estranea alla successiva vicenda storica, scadendo al rango di «incidente di percorso», moto tellurico imprevedibile, legato a un casuale eccesso repressivo e all’esasperata risposta di frange anarcoidi. Sta di fatto che gli studi sul tema sono singolarmente pochi e la migliore ricostruzione risale al 1965.5
Se si guarda agli eventi di Napoli, per stare al livello locale, appare chiaro che esiste una duplice lettura: c’è chi punta l’indice contro il «piano dei sindacalisti rivoluzionari […] e dei socialisti bloccardi di far rientrare subito nell’alveo dell’ordinata convivenza sociale lo sciopero generale e di neutralizzare ogni tentativo insurrezionale» – la Settimana Rossa come «occasione mancata» – e chi registra le “direttive moderate delle organizzazioni ufficiali” e la “larga partecipazione della classe operaia”, attribuendo, però, le “punte di rivolta molto acuta”, a gruppi consistenti ma minoritari6.
Al centro dell’analisi, quindi, le organizzazioni, i gruppi dirigenti, i contrasti creati dall’azione moderatrice dei riformisti, l’evanescenza della spinta radicale impressa alla lotta «dallo stato maggiore rivoluzionario, […] le incertezze, le manovre diversive, i consigli di prudenza, le inversioni di rotta dei vari Mussolini, De Ambris, Nenni e Chiesa»7. A ben vedere, però, non solo restano in ombra la composizione reale delle masse scese in piazza e il ruolo dei diversi strati operai nella protesta, ma inesplorate appaiono anche la dimensione reale del sentimento antimilitarista che l’agitazione per Moroni e Masetti rende più visibile, ma non «misurabile»8; un sentimento che non è forte solo a Napoli, la città da cui parte la lettera-denuncia di Moroni contro il trattamento subito, ma è cosi radicato nella coscienza dei lavoratori, da coinvolgere non solo il proletariato italiano, ma anche emigrati che vivono in America del Nord, Svizzera, Francia e Inghilterra9.
In Canada, per esempio, nel dicembre 1913 Armando Delmoro e Umberto Fiocco inviarono al Procuratore di Venezia un‘istanza di scarcerazione di Masetti, sottoscritta da 120 emigrati della colonia italiana di Hamilton, nell’Ontario10. Istanze simili giunsero a febbraio del 1914 da emigrati residenti a Panama, nell’Illinois e a New York, dove il primo maggio 1914 la protesta per Masetti incrociò le lotte del movimento operaio locale e coinvolse «scioperanti d’ogni nazionalità», alle prese con «alcune misure di repressione adottate dalle autorità statali del Colorado», dopo «disordini e danneggiamenti avvenuti in alcune miniere di quello Stato». Finito il corteo, gli italiani si recarono al Consolato e tra «fischi e grida di abbasso i Savoia, […] di cui probabilmente gli agenti dell’ordine non compresero neppure il significato», provocarono un principio d’incendio nell’edificio occupato dal Consolato, «di origine
dolosa perché causato da liquido infiammabile che era stato sparso ed acceso sulla scala di legno». Una tensione che non si allentò subito, se il 31 maggio, a pochi giorni dai fatti di Ancona, il Console segnalò una nuova dimostrazione «per la detenzione in un manicomio del Regno del soldato Masetti». Stavolta, però, alle «proteste chiassose dei convenuti accorse la polizia che li sbandò ed impedì che la riunione privata si mutasse in comizio all’aperto, che, per essere giorno festivo, era contrario alle leggi locali in materia»11.
Più intensa la partecipazione degli italiani emigrati nella vicina Svizzera, dove sin dal 1912 si fanno sottoscrizioni per aiutare la famiglia di Masetti. A loro, per ringraziarli, la madre del giovane indirizza una lettera che, tradotta in francese, esce a Ginevra il 20 settembre 1913 sul foglio comunista anarchico «Le Reveille»:
«Tres chers camarades, – scrive la donna – je vous remercie du bien que vous voulez e notre famille désolée. En attendant j e vous dirait les paroles de notre pouvre enfant le semaine dernière: «Chers parents, je ne sais pas quelle est me situation: je ne suis pas malade et ne puis comprendre le motif pour le quel je me trouve dans cette maison de fous criminels. Pouvez-vous me l’espliquer? Et toi maman, qu’y a-t-il de nouveau à la maison pour moi? Je mange et bois et ne sais rien». Nous ne savons que rèpondre, car on ne peut rien lui expliquer peuvre enfant! S’il conneissait tout le bien que nous font les bonnes gens, il en sarai etonné. Nous lui evons envoyé de l’argent […] mais nous ne sevons s’il l’a reçue ou non. Excusez les fautes que je fais en écrivant. Je termine en vous remerciant mille fois et en vous souhaitant d’avoire toujours plus de bonheur que nous! Salutations fraternelles. Giacinte Montanari Masetti»12.
Com’è naturale, la lettera scuote le coscienze e la protesta cresce, perché un sentire comune spinge a ribellarsi: nelle condizioni di sfruttamento in cui vivono i lavoratori, guerra e militarismo suonano come un oltraggio intollerabile e non stupisce, quindi, se a novembre il Console italiano a Berna informa il Ministro che
«l’agitazione pro Masetti va sempre più accentuandosi. A Berna, Ginevra, Lucerna, Basilea, San Gallo, Rorschach, Arbon e Kreuzlingen – annota il Console – si stanno organizzando feste, il cui ricavato sarà versato ad un comitato d’agitazione in via di formazione, del quale probabilmente faranno parte oltre il Bertoni ed il Luzi Lelio, anche qualche socialista e qualche repubblicano».13
Quando i libertari mandano da Parigi il numero unico «Liberiamo Masetti», che dimostra la volontà unitaria, ospitando un articolo del socialista Giuseppe De Falco, la protesta coinvolge ormai i centri operai dalla Svizzera francese. Da novembre del 1913 a giugno del 1914 feste, comizi, lotterie, la messa in scena del bozzetto sociale «Ribelle», scritto da Lelio Luzi, e un concerto di Ida Baucci raccolgono fondi per il soldato e, al di là del colore politico, la linea degli oratori è identica: attaccano «il governo italiano e casa Savoia pel trattamento fatto al Masetti e per la loro politica imperialistica e guerrafondaia che ha piombato l’Italia nella miseria», lodano il soldato e “sostengono la necessità di intensificare l’agitazione in suo favore ricorrendo anche alla violenza14. La
spinta unitaria è tale, che il 18 dicembre 1913, a Berna, il console annota: «l’agitazione pro Masetti è riuscita a mettere d’accordo repubblicani, socialisti ed anarchici, che da mesi si abbandonavano a forti polemiche sui rispettivi giornali». Ai primi di gennaio del 1914, partiti i lavoratori stagionali, la tensione cala, ma il Comitato di agitazione riesce comunque a inviare 500 franchi a Giacinta Masetti, perché possa pagare una nuova perizia medica per il figlio. A marzo, poi, rientrati i lavoratori, riprendono manifestazioni e comizi unitari e il 7 giugno, giorno in cui in Italia si festeggia lo Statuto, Luigi Bertoni parla a un comizio antimilitarista, promosso da tutte le organizzazioni dei lavoratori15.
Certo, l’unità non sempre prevale. Se a Londra però le divisioni frenano la protesta, a Parigi, la partecipazione è notevole e, ciò che più conta, aumentano i momenti unitari di lotta16. Non a caso, nel novembre 1913, dopo un comizio promosso dal Gruppo Rivoluzionario Italiano, l’Ambasciata annota: «la vasta sala […] era invasa da numerosissimo pubblico che si poteva calcolare approssimativamente ad oltre cinquecento persone». Una partecipazione cosi viva, che l’oratore, Carlo Malato, «applaudito in vari punti ed acclamato entusiasticamente […] si era trattenuto nella sala oltre la mezzanotte»17. Proprio quel giorno, del resto, testimoni delle possibilità di un’intesa difficile, ma non impossibile, gli anarchici del «Libertario» ospitavano una lettera del deputato socialista Elia Musatti che offriva all’agitatrice Maria Rygier dati giuridici sul caso Masetti18.
Città cosmopolita per vocazione, Parigi dà respiro internazionale al movimento, grazie a Jean Grave, Pietro Kropotkin, Sébastien Faure, Amilcare Cipriani, Francesco Saverio Merlino, Jean-Louis Thuillier, segretario del «Comité de Défense Sociale», Arthur Minot per l’«Union des Syndacats de la Seine», George Yvetot, della «Confederation Generale du Travail», Sicard de Plauzolles, schierato con la «Lega dei Diritti dell’Uomo» «contro l’immoralità dei moralisti», gli spagnoli Josè Gines e Antonio Bernardo, il francese Pierre Martine il russo Emile Riethmann per il «Comitato Anarchico Internazionale contro la repressione»19. Ai casi Masetti, Moroni e Fioravanti, si affiancano cosi quelli del polacco Jacob Law e dei francesi Françoise Pean ed Emile Rousset, simbolo dell’antimilitarismo internazionale, che, uscito da poco dall’inferno di “Biribì”, la struttura disciplinare francese in Africa del Nord, partecipa alla lotta e firma un articolo per il numero unico «Liberiamo Masetti»19. Intanto, nei ritrovi abituali degli emigrati, al «Café Ludo», al «Cafè de la Forche» e a quello «de la Mairie», nella «Salle de l’Esperance», alla «Maison des Syndaqués», le iniziative fervono: attori come Franco Stanziani, della Compagnia Drammatica Italiana, musicisti come Giovanni Gagliardi, artisti da strada, che hanno soprattutto fama di sovversivi, raccolgono fondi, «recitando poesie d’occasione e bozzetti sociali» e suonando fino all’alba musica da ballo20. In prima linea sono spesso le donne: Maria Rygier, Luisa Corvetto, Nelly Roussell, che nei comizi infiammano gli animi dei compagni, Maria Verone e Louise Oustry entrambe avvocato, che mettono in campo la loro competenza; l’agitazione, in realtà, va ben oltre il caso del soldato perseguitato e, come spiega una parola d’ordine della protesta,
riguarda «il rispetto dei diritti dell’uomo»21. Diritti civili e politici. Non si tratta perciò solo di «Giolitti, protettore della maffia, che governa da ‘liberale’, con l’appoggio dei clericali, dei quali ha scandalosamente favorito gli interessi elettorali», o dei governanti italiani che «hanno innalzato la forca sulla piazza del pane a Tripoli». E non è nemmeno questione di «pietà per i perseguitati»22. Vista da una grande città europea, la lotta supera i confini nazionali, pone «un problema di forza […] ed una questione di diritto»; quando però Nelly Roussell invita allo «sciopero dei ventri» e urla il suo «niente bambini», ce l’ha col capitalismo, «che ne fa carne da lavoro da sfruttare o carne da piacere da insozzare»23. A ben vedere, del resto, è lì che conduce l’agitazione, al nodo del capitalismo, che crea squilibri e repressione. «Oggi – scrive la redazione di ‘Les Temps Nouveaux’ – è il meglio dell’umanità a soffrire nelle prigioni, nell’esilio o nella miseria»24. E’ naturale perciò che in ogni paese si ascoltino lamenti di donne oltraggiate e di uomini imprigionati per «aver espresso il loro pensiero» o «difeso i loro più legittimi e immediati interessi». Lo scontro è di classe, perché ovunque
«la borghesia, alle prese con una crisi economica che la sua imprevidente e imbecille rapacità ha creato, non sa che opporre la più estrema violenza alle legittime rivendicazioni di coloro che essa stessa ha spogliato e di quella disperata fatica dalla quale dipende l’intera vita sociale»25.
Al tema della repressione si affianca cosi quello di un dissenso, ampio, generalizzato, che ha radici comuni e riguarda il rapporto tra diritti e potere. Si lotta per Masetti e Moroni contro il militarismo, perché si lotta col capitalismo, in difesa delle sue vittime. E sono quelle vittime che uniscono in quei mesi il proletariato: i minatori del Colorado in sciopero, massacrati dalla guardia nazionale, i dissidenti russi dispersi nel gelo della Siberia, Teodore Antilli, Apolinario Barrera e Rodolfo Gonzales, sepolti nelle galere argentine per reati di stampa, Eduardo Vasquez, condannato a Cuba a quindici anni di bagno penale per i suoi ideali politici, i rivoluzionari messicani Jesus Gonzales, Josè Mendoza, Rangel Alzalde e Lino Velasquez, catturati da soldati statunitensi sul Rio Grande, mentre si univano a bande ribelli, e «sepolti in carceri americane26».
Certo, su un terreno di protesta così ampio, coperto soprattutto dagli anarchici, tra aprile e maggio dal 1914 l’iniziativa tende a disperdersi e non mancano zone d’ombra e battute a vuoto. Quando però giunge a Parigi il supplemento di «Volontà», che invita alla protesta per il 7 giugno, festa dallo Statuto, l’agitazione riprende e, nonostante i forti dissensi che separano gli anarchici, Leonini, delegato di PS addetto all’Ambasciata, non può fare a meno di rilevare che il «Comitato di difesa sociale continua indefessamente nella sua azione di propaganda in favore dal soldato Masetti». I lavoratori, intanto, consapevoli cha la manifestazione «sarebbe stata impedita dalla polizia a che molti […] sarebbero stati arrestati» ed espulsi, decidono di anticipare di un giorno il comizio di protesta e il 6 giugno, mentre nulla lascia prevedere ciò cha di lì a poco accadrà in Italia, a Montreuil-sous-bois, nei pressi Parigi, il rappresentante del partito socialista francese, Thillier, parla agli emigrati italiani «in favore del soldato
ribelle». La partecipazione è tale, che Leonini, colpito, scrive a Roma di un «grande meeting». Quando poi dall’Italia giunge notizia dai morti di Ancona, la reazione è cosi accesa, che il poliziotto annota inquieto:
«Il meeting di protesta organizzato dal gruppo rivoluzionario italiano par la sera di sabato 13 corrente è riuscito molto numeroso. Infatti, verso la nove si trovavano già adunati nella sala La Bellevilloise, […] oltre 700 sovversivi italiani a stranieri. Erano presenti tutti gli aderenti al gruppo rivoluzionario comunista […], gli anarchici individualisti, i rivoluzionari sindacalisti a molti socialisti. […] Un gran numero di operai italiani qui emigrati, dimoranti a Parigi e nella banlieue, aveva condotto anche le loro donne»27.
Se, come appare da queste brevi note, conosciamo ben poco della dimensione internazionale della campagna antimilitarista, poco sappiamo anche della consistenza della protesta e dello spessore reale della partecipazione popolare all’interno del Paese, alla vigilia di un conflitto cha cancellerà il sogno della solidarietà internazionale dei lavoratori. Persino Lotti, autore del saggio più organico sui moti di giugno, dopo aver notato che in quei mesi, «l’antimilitarismo era il solo cemento che univa i partiti estremisti», si limita a ricostruire le vicende personali di Masetti e Moroni ed accenna ad alcune iniziative che vi si collegano, ma ha l’occhio attento soprattutto al dissenso con cui i capi riformisti accolgono la fucilata di Masetti28. Poco sappiamo perciò dei contatti e delle sintonie che la campagna antimilitarista attiva tra militanti anarchici, socialisti e repubblicani e che probabilmente spiegano la condotta dei manifestanti e l’azione comune che essi realizzano durante la Settimana Rossa. Di fatto, a un primo esame la documentazione disponibile getta fasci di luce su una realtà di singolare interesse e induce a chiedersi se l’avversione alla guerra e al militarismo si possa valutare semplicemente – e forse semplicisticamente – guardando ai leader del movimento esploso con la guerra libica e alle loro successive conversioni all’interventismo. Chiedersi, se l’ostilità delle masse alla guerra e al antimilitarismo non abbia, invece, una storia che solo di rado coincide con le titubanze ideologiche dei Corridoni e dei De Ambris e non ha nulla a che fare con l’opportunismo di Mussolini. La classe operaia, questo sì, non è un blocco uniforme: pesano la provenienza geografica e la sindacalizzazione di lavoratori che non hanno tutti la stessa coscienza di classe e non esprimono ovunque la stessa carica di protesta. Non stupisce perciò che l’epicentro dei moti sia nelle aree contro-settentrionali del Paese: a Parma, dove i sindacalisti chiedono di revocare la legge eccezionale di Crispi e le norme sull’istigazione al crimine e l’eccitamento alla rivolta29; a Genova e negli insediamenti industriali liguri, dove fanno i loro comizi Maria Rygier, Giuseppina Galli, Pasquale Binazzi e Libero Merlino30; nella Romagna del «Rompete le file», il foglio che lancia la parola d’ordine «demoliamo l’esercito», con cui la Rygier sfida la repressione31; a Firenze, dove dal novembre del 1912 opera un comitato di agitazione32; a Perugia, dove la Rygier riesce a riempire il teatro «Tirreno» (ma per le autorità di polizia si tratta per lo più di curiosi)33; a Milano, dove lo scontro con i riformisti agevola l’intesa tra i
gruppi di estrema sinistra e crea una situazione cosi esplosiva, che a marzo del 1913, in vista del processo a Moroni, il prefetto fa appello alle
«evidenti ed imprescindibili ragioni di ordine pubblico perché si trovi modo di rinviare quel dibattimento […] ad altro tribunale militare, che abbia sede in città ove l’ambiente sia più tranquillo»34.
In quanto al Meridione, dove il i6 maggio del 1912 una manifestazione contro la guerra libica raccoglie a Napoli i socialisti e le organizzazioni sindacali campane, le Camere del Lavoro di Bari, Foggia e Cerignola, la Federazione Socialista pugliese, l’Unione Socialista lucana e la gioventù socialista meridionale, non tutto è tranquillo35. Certo, dopo la grande manifestazione la tensione cala e non sarà più possibile giungere a una mobilitazione di massa, tuttavia, la protesta continua e attraversa come un fremito grandi e piccoli centri. Lascia segni a Messina, città periferica nella mappa del movimento operaio, da cui, tuttavia, giunge alla «Federazione Nazionale Antimilitarista», che ha sede a Parma, l’adesione del locale «Fascio Giovanile Socialista»36; ha un’anima tenace in Basilicata, dove fino ad aprile del 1915 la polizia segnala «una frazione socialista sindacalista neutralista ad oltranza», attiva a Melfi, Montemilone, Lavello, Palazzo e Matera, centri in cui «la maggioranza delle classi operaie e agricole vede con terrore la possibilità dell’entrata in guerra»37; attraversa una terra di forti conflitti sociali come la Puglia, nella quale l’opposizione alla guerra libica è sensibile sin dall’inizio e dove, non a caso, subito dopo la Settimana Rossa, Giuseppe Di Vittorio ed Enrico Meledandri, segretario della Camera del Lavoro di Bari, dovranno espatriare38; passa in l’Abruzzo, giunge a Chieti, dove sin dall’autunno del 1911 cresce l’ala socialista intransigente e anticolonialista, che vede nell’impresa libica un successo di «nazionalisti guerrafondai» e «clerico-reazionari» pronti «a divergere i fondi dello stato […] a tutto beneficio delle loro classi»40; a Teramo, dove i socialisti guardano alla conquista libica come a una «manifestazione organica del regime capitalista» e condannano gli «armigeri del nazionalismo» e le «mene imperialistiche»41; all’Aquila, nei comuni della Marsica, a Sulmona, a Castellammare Adriatica, dove le divisioni sulla guerra si acuiscono progressivamente e la linea riformista cede il passo a posizioni massimaliste, tant’e che da gennaio a giugno del 1914 il quindicinale «l’Aterno» raccoglie attorno a sé uno schieramento che comprende dissidenti dei blocchi popolari, gruppi anarchici, circoli libertari, componenti sindacali e sezioni giovanili aderenti alla FGS42. Un fremito che attraversa di certo anche Napoli negli anni tra impresa libica e conflitto mondiale, quando protesta antimilitarista e opposizione alla guerra si intrecciano ai «comizi (sempre meno tranquilli) contro il rincaro dei fitti e delle case, […] contro il dazio sul grano, per il comune popolare e il suffragio universale»43. Di fatto, nel primo semestre del 1914, Napoli è ai primi posti nel Paese per scioperi e scioperanti44 e le agitazioni si svolgono in un clima cosi teso, che il 25 aprile 1914 il prefetto, allarmato dalla partenza di reggimenti del presidio militare per un’esercitazione a fuoco, chiede che le truppe rimangano in città,
«in considerazione attuali condizioni questa città, a seguito sciopero generale tramviario e operai tabacco, nonché agitazione di altre classi impiegati e lavoratori, anche in vista prossima ricorrenza 1° maggio»45.
I timori del prefetto sono fondati. In città, infatti, è in atto una significativa ripresa anarchica; lo dimostrano la richiesta di pubblicare un giornale – il quindicinale «La Protesta» – presentata dal falegname Antonio Sinatra, un congresso regionale tenuto proprio in quei giorni nei locali della Borsa del Lavoro e l’emergere di militanti che non sono solo agitatori, ma hanno tempra di organizzatori sindacali e rapporti organici con i lavoratori: Armido Abbate, dirigente della locale sezione del sindacato ferrovieri, Salvatore Mauriello, attivo capolega dei calzolai, Carlo Melchionna, futuro segretario della lega dei panettieri, Gaetano Fedele, dirigente della lega degli arsenalotti e poi segretario della Camera del Lavoro di Scafati, lo stesso Sinatra, che nel dopoguerra sarà dirigente della lega dei lavoranti in legno e della «Camera del Lavoro»46. Né, d’altro canto, in una città in cui è attivo Amadeo Bordiga e sin dal 1908 Nicola Fiore, dirigente dei giovani socialisti, è in rapporto con Alfredo Polledro per creare una sezione dell’«Associazione Italiana Antimilitarista», mancano contatti col movimento che si sviluppa nel 191347. Carlo Melchionna, per esempio, collabora attivamente con «Rompete le File»48 e non è certo un caso se a Napoli, ai primi del 1913, è arrestato e trovato in possesso di alcune schede di sottoscrizione del giornale l’anarchico romano Ignazio Andreani49.
Ad agitare ancor più i sonni del prefetto, nella primavera del 1914, rapporti confidenziali informano che cinque degli undici «propagandisti più influenti, sguinzagliati per tutta l’Italia allo scopo di preparare la massa alla futura battaglia per l’agitazione ferroviaria» operano nella città campana, dove esistono nuclei rivoluzionari così attivi da far temere che lo sciopero possa «cominciare fulmineo […] specialmente a Napoli»50. Se e quanto fondate siano queste apprensioni, non è facile dire, di fatto, però, non solo la linea lungo la quale correrà la protesta in città dopo l’eccidio di Ancona è già tracciata, ma gli uomini che la guideranno si muovono prima che la Borsa del Lavoro assuma iniziative concrete. La sera del 9 giugno, infatti, al sindacato ferrovieri, si incontrano socialisti intransigenti e militanti sindacali che, concordata una linea, si dirigono «alla Borsa del lavoro al grido di viva lo sciopero generale». In quanto agli anarchici, alcuni già distribuiscono volantini per un comizio in programma per il giorno seguente. Divisi nella propaganda per la mobilitazione dei lavoratori, socialisti intransigenti e anarchici assumono immediatamente l’iniziativa nelle piazze, dove la dura risposta repressiva cancella rapidamente gli steccati ideologici e unisce forti nuclei di lavoratori. Non a caso, il 18 giugno, a pochi giorni dopo i gravi incidenti, il questore porrà l’accento sull’azione svolta «dall’elemento anarchico, il quale ritenne, per un momento, che la protesta pei noti fatti di Ancona fosse occasione propizia per insorgere» e l’esplosione di un
«movimento sedizioso che, fomentato anche dall’elemento socialista intransigente, fece refluire alla superficie i bassi fondi sociali […] che si abbandonarono a violenze inaudite contro la forza pubblica e ad atti di devastazione e di ruina»51.
Nelle piazze c’era stata una convergenza nell’azione dei lavoratori, un avvicinamento che ignorava le divisioni ideologiche, sicché la frattura vera, a Napoli come probabilmente nel resto d’Italia, sembra separare le avanguardie di base dal vertice del movimento. Una base che il questore, senza spiegare le cause del forte intervento militare in funzione antisommossa, liquida frettolosamente: «bassi fondi sociali» scrive, infatti, sprezzante, ignorando cosi il peso degli eventi e l’effettiva “qualità” della partecipazione operaia52.
Allo stato delle ricerche, sappiamo bene poco dei lavoratori che lottano in piazza: si va dalle generiche «avanguardie sovversive», che agiscono spesso di propria iniziativa, senza seguire le disposizioni dei vertici politici e sindacali, a «elementi anarchici», quasi sempre anonimi e, ciò che più conta, politicamente «rozzi» come per attitudine genetica. Inadeguata appare, infine, nell’insieme, la documentazione raccolta, ed è ovviamente un elemento di debolezza che pesa sull’impianto interpretativo, sia a livello di ricostruzione, che di valutazione dei fatti. Lotti, attento anzitutto ad Ancona e alle aree centro-settentrionali del Paese, riferendosi a Napoli, sostiene erroneamente che i primi tumulti avvennero il 10 giugno53. In realtà, scontri si ebbero in città già la sera del 9, dopo che alla Borsa del Lavoro l’assemblea delle leghe aveva deciso lo sciopero generale. Terminata la riunione, infatti, riferiscono in piena sintonia stampa e carte d’archivio – alcune centinaia di dimostranti, giunti alla stazione ferroviaria per impedire la circolazione dei treni, bruciarono lo steccato di legno che sbarrava un ingresso laterale, ma furono dispersi. Negli scontri, a riprova della forte anima politica nella protesta, fu arrestato lo studente universitario Vincenzo Macri, anarchico «dalla cravatta nera svolazzante» che, volto agli agenti, «gridò loro sul viso: andate via, vigliacchi, sbirri, farabutti»54. Questa non è la sola inesattezza. Nel tentare un bilancio dei moti, Lotti scrive che a Napoli si contarono tre dei sedici scioperanti uccisi negli scontri con la forza pubblica; in realtà, i morti furono quattro. Accennando poi ai sanguinosi incidenti dell’11 giugno, nei quali cadono due giovani, Lotti accetta dà credito alla versione fornita inizialmente dalla Questura, che confonde le identità dei morti e minimizza la portata degli scontri: una sola sparatoria, come risposta a fantomatici colpi di pistola esplosi da non meno fantomatici anarchici55. In realtà, i due dimostranti morirono in strade lontane tra loro, dopo sparatorie che non furono provocate da colpi esplosi da anarchici (il solo «sovversivo» coinvolto per caso negli scontri era un socialista disarmato) e non ebbero alcun legame tra loro: lo stagnino Gennaro Miceli cadde a Vico Spicoli, ucciso da un reparto di bersaglieri, Pietro Raimondi, operaio del cotonificio Wenner, a Vico Croce Sant’Agostino alla Zecca. Benché costruita ad arte per coprire l’uso illegale e ripetuto delle armi da fuoco, la ricostruzione ufficiale dei fatti è cosi debole e confusa, che il 23 giugno il giudice istruttore scrive al questore:
«Mi permetto restituire alla S.V. l’acclusa nota, perché mi pare che essa insista in un evidente equivoco […]. Il Raimondi non è l’ucciso del Vico Spicoli, ma quello del Vico Croce Sant’Agostino alla Zecca. D’altra parte, molteplici elementi generici e specifici fanno ritenere che l’ucciso del Vico Croce non abbia alcuna relazione con i fatti del Vico Spicoli. Occorre perciò intensificare ed approfondire le indagini per accertare le circostanze nelle quali avvennero il ferimento e la morte del Raimondi. Ed io prego la S. V di volerne incaricare uni funzionario di sua fiducia, restando in attesa di comunicazioni sull’esito delle ulteriori indagini»56.
Le forze dell’ordine, però, che sanno bene come sono andate le cose, insistono e il 2 luglio il commissario di sezione Pendino non esita a scrivere:
«Pregiomi confermare ancora una volta che alla via Sant’Agostino alla Zecca, che separa questa dalla sezione Mercato, non vi fu alcun conflitto tra la forza pubblica e i dimostranti in occasione dei tumulti popolari che ebbero a deplorarsi anche in Napoli nello scorso giugno e ciò per dichiarazioni conformi degli abitanti tutti di detta via, nonché dei RR. Carabinieri e del Maresciallo che hanno ivi la loro stazione».
Per parte sua, il commissario della sezione Mercato, ammette che il povero Raimondi non fu colpito al Vico Spicoli, ma scagiona la polizia ricordando che, «per quante indagini si siano potute fare […], non si è riuscito ad accertare da chi e come fosse stato ucciso», e suggerisce l’ipotesi che l’operaio sia stato colpito accidentalmente dai dimostranti; l’ora e il sito in cui fu trovato, scrive infatti il funzionario,
«fanno ritenere che egli avesse preso parte ad atti vandalici che in quella sera scugnizzi e teppisti andarono commettendo, seguendo anche costoro quando tiravano sassi ed esplodevano colpi d’arma da fuoco contro le diverse squadre di Guardie e Carabinieri impiegate nella repressione ed in ciò si suppone abbia dovuto trovare la morte»57.
Il Raimondi, quindi, sarebbe stato ucciso da una pallottola vagante, dal colpo avventato tirato da un ignoto dimostrante. Una menzogna che il giudice prende per buona, ma è smentita senza ombra di dubbio, da una dichiarazione rilasciata al drappello di polizia dell’Ospedale della Pace, proprio mentre vi giunge, cadavere, il Raimondi. La riferisce un inconsapevole agente e nessuno provvede a farla sparire. Nella forma telegrafica in cui è giunta fino a noi, con un inequivocabile appunto a matita di pugno del questore – «ferito durante i disordini» – conserva l’evidenza schiacciante e drammatica delle prove inconfutabili:
«Alle ore 23 di ieri e stato medicato Ospedale Pace Bini Enrico […] anni 56, medico veterinario da Mantova, qui residente via Santa Sofia 5, con ferita lacero contusa regione parietale destra, contusione escoriata regione temporale destra […]. Il fatto avvenuto al vico Croce Sant’Agostino alla Zecca. Interrogato ha dichiarato essere stato percosso dalle guardie di città. Si fanno indagini»58.
Di questa, come di tante oscure vicende di quei tragici giorni, né Lotti, né i pochi studiosi che hanno ricostruito la Settimana Rossa a Napoli si sono occupati, nemmeno storici attrezzati, come Michele Fatica e Marcella Marmo. Il primo, nel solco di una tradizione storiografica rigorosa, che però bada anzitutto ai leader, si ferma molto sulla scarsa qualità dei dirigenti del movimento e sulle contraddizioni dei riformisti, cui avrebbero rimediato anni dopo Bordiga, la Camera del Lavoro e la locale sezione del PCdI, ma non si avvede che molti leader della Settimana Rossa che accusa di «rozzezza» e improvvisazione, saranno dirigenti nella Camera Confederale del Lavoro e nella bordighiana sezione napoletana del PCdI59.
Ispirata a criteri di storia sociale, spesso ridotta a un generico sociologismo «minimalista», la lettura della Marmo si propone di «smontare» la ricostruzione del Fatica, senza proporne però una alternativa e si segnala soprattutto per gli errori e le imprecisioni. La studiosa, infatti, non solo accetta, come Lotti, le menzogne della polizia, ma vi aggiunge elementi di confusione, trasformando in passanti, coinvolti per caso nella sparatoria, due dei quattro manifestanti uccisi negli scontri e riducendo i dimostranti arrestati a inesistenti «parenti ed amici delle vittime». La ricostruzione assume così i toni coloriti ma inaffidabili di un «pezzo di cronaca». Giornalistiche, del resto, scrive la studiosa, sono le fonti disponibili, perché a modo di vedere, mancano documenti ufficiali da cui ricavare «un elenco di tutti gli arrestati corredato dal rispettivo mestiere», per capire se si tratti di facinorosi o delle avanguardie sovversive di cui parla Fatica. Ciò non toglie, conclude frettolosa, chiudendo la pratica, che nella «mescolanza di figure operaie vecchie e nuove» si colga «nettamente una componente moderna»60.
In realtà, come spesso accade, la questione delle fonti è anche problema di metodo. In questo, come in molti altri casi, la documentazione non manca; per reperirla, sarebbe bastato seguire il filo logico che lega tra loro in senso «verticale» e «orizzontale» le note di polizia affidate agli Archivi di Stato. In genere, i prefetti inviano al Ministero dell’Interno la sintesi, se non una copia lievemente corretta, dei rapporti ricevuti dai questori e questi, a loro volta, mettono insieme le note dei commissari di sezione. Talvolta, perciò non basta fermarsi ai documenti provenienti dal vertice della piramide, ms occorre reperire quelli prodotti alla base. In questo senso, le carte della polizia amministrativa e giudiziaria possono rivelarsi preziose. Per quanto riguarda la Settimana Rossa, a Napoli come in tutto il Paese, occorre tracciare la rotta nel mare magnum dei reati commessi da ladri, truffatori e lenoni e individuare le categorie di archiviazione che conducono a omicidi, mancati omicidi, danneggiamenti, lesioni, oltraggi e resistenza, i reati più frequenti durante moti di piazza. Compiuto questo lavoro, è possibile ottenere numerose «istantanee» dei moti, scattate da un obiettivo che mette a fuoco i dettagli, segue gli eventi quartiere per quartiere e momento per momento e, ciò che più conta, produce documenti che non hanno subito «correzioni» e «tagli politici» dai vertici della Questura e della Prefettura. Una fonte, quindi, più attendibile e diretta, che consente tra l’altro di giungere alle sentenze emesse dai magistrati; si tratta
di documenti preziosi, che forniscono spesso dati sulla condizione sociale dei manifestanti e sui loro precedenti penali, offrono utili e articolate descrizioni degli «eventi delittuosi» e, non bastasse, consentono di verificare l’attendibilità della documentazione fornita dalla stampa e dalla successive elaborazioni delle autorità di pubblica sicurezza61.
Limitandosi alle denunce registrate nei fascicoli della polizia ritrovati in Archivio, è stato possibile trovare le sentenze di 42 processi a carico di 143 dimostranti. Sul piano giuridico, l’impressione che se ne ricava è che, sebbene in buona parte vanificata dal sopraggiungere di un’amnistia, la repressione fu dura, come attesta esplicitamente Giosuè Pirro, presidente della VI Sezione della Corte d’Appello, che il 6 agosto 1914 spiega la severità della pena inflitta a un giovane artigiano incensurato con la necessità che
«essa riesca intimidatrice ed esemplare, né si ripetano in avvenire le gesta selvagge e gli atti vandalici del canagliume, insorto questa volta con temeraria baldanza e con propositi sovversivi»62.
Una durezza dettata probabilmente dalla scelta di una linea di condotta «politica», confermata da Eugenio Salvati, presidente della V Sezione del Tribunale Penale, che il 17 giugno 1914, spedendo in galera per 20 mesi Giacomo Sorrentino, un manovale ventunenne e incensurato, ritenuto colpevole di resistenza e oltraggio, annuncia che è «cominciata l’opera della giustizia punitrice». Una giustizia non diversa da quella resa a Luigi D’Anna, un calzolaio incensurato di soli quindici anni, condannato a 12 mesi di reclusione e 500 £ di multa per danneggiamenti, e a Giuseppe Sbriglia elettricista diciottenne «di buona condotta», arrestato il 12 giugno per violenza e oltraggio e condannato, benché privo di avvocato, a tre anni di reclusione63. Sulla stessa linea – imputati giovani e incensurati e pene pesanti – i 16 mesi per danneggiamento e attentato alla libertà del lavoro al ferroviere Natale Totaro64, i tre anni e mezzo di carcere per resistenza e oltraggio al meccanico Davide Portacasa65, i 5 anni di prigione al panettiere Giacomo Paciello, preso mentre tira sassi ai fanali dell’illuminazione pubblica66, e i 2 anni e mezzo di galera al tagliamonte Vincenzo Nicolella, che la sera del 10 giugno, rompendo «i globi della luce elettrica”, provocò l’ira “dei cittadini, i quali si indussero ad inseguirlo e arrestarlo, traducendolo in questura davanti al funzionario di servizio»67.
L’esito dei processi, le ammissioni degli imputati, i dati forniti dalle sentenze, incrociandosi con gli elementi che emergono dai rapporti dei commissari di sezione, dai verbali di arresto, dalle segnalazioni dei drappelli di polizia presenti negli ospedali cittadini, forniscono alla fine un quadro complesso, sul quale vale la pena di fermarsi a riflettere. Ciò che colpisce anzitutto è il contrasto stridente tra la maturità di lavoratori che dal ’98 in poi, hanno consolidato la coscienza civile e la dignità di classe, e la povertà culturale e morale, i limiti ideologici e la scarsa flessibilità politica di ceti dirigenti che, rifiutata la mediazione giolittiana, arretrano su posizioni di chiusura, avviando un pericoloso processo involutivo. L’abbandono della pratica del dialogo
indebolisce e isola gli antichi interlocutori di formazione socialista riformista, che da tempo, però, si sono isteriliti a tal punto da confondere ormai un metodo di lotta politica con gli obiettivi di un movimento, che pure aveva trovato le ragioni del suo rapido successo proprio nella proposta alternativa che l’aveva caratterizzato. Una situazione pericolosa, nella quale il respiro corto della progettualità politica cela l’ombra minacciosa di una stagione di prove di forza, la cui prima vittima sarà la fragile democrazia cresciuta a fatica negli anni tra l’ostruzionismo parlamentare e la collaborazione tra Giolitti e Turati.
Di fronte a un moto di solidarietà che assume i caratteri di radicale protesta contro un sistema politico arretrato e inefficiente, la borghesia trova l’appoggio della corona e dell’esercito, tradizionalmente insensibili ai bisogni dei ceti meno abbienti e ai problemi della democrazia. Giolitti è appena uscito di scena, quando Salandra riporta in vita gli «spettri del ’98» e sceglie la via della repressione. Passano così sotto silenzio le domande emerse con la Settimana Rossa: democrazia, modernizzazione, politica di pace che affronti i problemi reali del Paese. Un silenzio che, in prospettiva, peserà in misura schiacciante nella crisi delle Istituzioni liberali e, nell’immediato, getta più di un’ombra sullo sbandierato «senso dello Stato» di una borghesia per la quale, l’utilità collettiva cede sistematicamente il passo alla logica dell’interesse di classe. In questo senso, più che guardare alla Settimana Rossa come a una «rivoluzione mancata», o lasciarsi andare alla facile ironia sull’utilità di interrogarsi “intorno alle ragioni per cui le rivoluzioni falliscono”68, meglio sarebbe indagare sui motivi per cui non di rado, gruppi dirigenti e ceti capitalistici, decisi a non dare risposte adeguate a bisogni delle classi lavoratrici, fingono di vedere minacce rivoluzionarie in ogni legittima domanda di sviluppo civile e riscatto sociale e fanno delle speranze deluse l’alleato ideale di avventurieri e dittatori. Ed è qui, forse, in questa domanda senza risposta e nelle considerazioni che se ne poterebbero trarre, la lezione più attuale che ci viene dalla Settimana Rossa, che non a caso si presenta al ricercatore con una singolare omogeneità tra quadro locale e nazionale.
Emblematico, in questo senso, il caso Napoli, per la dimensione temporale della protesta, che si svolge dall’8 al 12 giugno69, per il forte coinvolgimento del proletariato, per i due piani sui quali essa si muove: quello legale – riunioni sindacali dei ferrovieri e di trentanove leghe operaie alla Borsa del Lavoro70, sciopero generale, comizi e cortei – e quello insurrezionale che si presenta spontaneo e minaccioso, come si è visto, sin dalla sera del 9 giugno, con un primo assalto alla stazione ferroviaria, ed esplode nei giorni successivi, paralizzando centro e periferia della città con un susseguirsi di scontri e di episodi di «guerriglia urbana», che tra il 10 e l’11 giugno sembrano seguire il filo di un embrionale progetto «militare». Emergono così forti nuclei di scioperanti, decisi a prendere tempo in attesa di una sommossa generalizzata che non si realizzerà; lavoratori che alzano barricate per frenare l’azione della cavalleria, attaccano ripetutamente la linea ferroviaria, per impedire l’arrivo di truppe di rinforzo, danno l’assalto a caserme dei carabinieri, cercano di paralizzare la stazione elettrica e impegnare
contemporaneamente le truppe in vari punti della città, dal Vomero a San Giovanni a Teduccio, dai Santi Apostoli a Capodimonte, per «rendersi padroni della piazza»71. Di fronte ai rivoltosi, forze dell’ordine che si muovono con una violenza cieca e indiscriminata che si scatena al primo accenno di protesta, indipendentemente dalla pericolosità dei manifestanti.
Pur limitando la ricostruzione ai dati ricavati dalle carte di polizia e alle fonti giornalistiche che trovano riscontro nelle carte d’archivio, la brutalità premeditata della repressione emerge inequivocabile dall’atroce fine di un operaio dell’Ilva, travolto dalla cavalleria lanciata alla carica, dai tanti dimostranti ferocemente sciabolati e soprattutto dall’ingiustificato e ripetuto ricorso alle armi da fuoco, che solo per caso non produce una strage. Il bilancio, com’è ovvio, è pesantissimo. Il 10 giugno cade in Via Aquila Giuseppe Onesto, un carbonaio ucciso a fucilate da un plotone di artiglieri che solo per miracolo non ammazzano anche l’idraulico Gottardo Vicedomini; la sera dell’11, poi, muoiono Pietro Raimondi, sedicenne operaio del cotonificio Wenner, ucciso a revolverate dai carabinieri al Vico Croce Sant’Agostino alla Zecca, e lo stagnino Gennaro Miceli, colpito alla schiena da bersaglieri, che, a vico Spigoli, profittando del buio – le sassate hanno spento i fanali – giungono silenziosi alle spalle di alcuni dimostranti e aprono il fuoco a freddo, alla cieca, nel buio della notte, colpendo anche il disoccupato Gennaro D’Angelo, al quale le fucilate spezzano un gomito72.
Sono gli episodi più gravi di una serie di scontri e sparatorie, nati dalla volontà di terrorizzare i dimostranti e stroncare una protesta che finisce così con l’essere scandita dai colpi esplosi e dalle urla dei caduti: in via Depretis, è ferito all’inguine da un colpo di pistola il falegname Pasquale Iodice, a San Giovanni a Teduccio è colpito a un fianco Gaetano Mormile, operaio della Pattison, a Porta Nolana ha una coscia trapassata da un colpo di rivoltella esploso da un carabiniere il cameriere Giuseppe Marziale, nei pressi di Porta Capuana è ferito il postino Vincenzo D’Elia, in via Carmignano, stramazza al suolo col femore spezzato da una fucilata Grazia Brancaccio e davanti alla Caserma di Sant’Onofrio alla Vicaria il panettiere Antonio Reo, è colpito dai carabinieri che sparano per disperdere la folla, decisa a liberare l’anarchico Francesco Cacozza73. Un elenco doloroso, che potrebbe continuare, ma basta a confermare l’assenza dalla scena del sottoproletariato classico, già rilevata dalla Marmo, che, tuttavia, non coglie il valore della sua osservazione e si perde nel labirinto degli stereotipi ideologici, mettendosi a cercare una componente «operaia moderna» in un proletariato industriale che, pur «assumendo una fisionomia più unitaria che in passato», non consente distinzioni «nella mescolanza di figure operaie vecchie e nuove»74.
Eppure il proletariato è là, nelle carte di polizia, vivo ancora più di un secolo dopo. Nella zona di San Giovanni a Teduccio, ci sono fuochisti e mugnai dei mulini e dei pastifici, ci sono i capilega, i segretari dei circoli socialisti, i metalmeccanici dell’Ilva e gli operai di Pietrarsa. Dai verbali emergono nomi e ogni volta che è possibile ricavarne storie di vita e di militanza, la «teppaglia» sparisce. Giuseppe Confessore, Vincenzo Gallo, Girolamo Lucarelli, Arcangelo De Cicco e Vincenzo Elegante che, tra l’11 e il 12
giugno, assieme agli operai Officine metallurgiche «Corradini», trascinano allo sciopero «tutti i compagni dei vari stabilimenti», hanno alle spalle un lungo percorso di lotte. Procedendo in corteo, si uniscono ai lavoratori di Pietrarsa, si scontrano con la truppa al Ponte dei Francesi, assaltano la stazione ferroviaria, sulla quale issano per alcune ore una bandiera rossa. Prima che giunga la sconfitta, affrontano i rischi di una sparatoria e strappano ai pericolosi nazionalisti del circolo «De Amicis» la bandiera nazionale, issata in segno di vittoria, perché, urla ai compagni il socialista Lucarelli nella furia dello scontro, «questa bandiera è stata la rovina […] ed ora stando qui a sventolare significa provocazione e offesa al proletariato»75.
Il proletariato che la Marmo pesa con la bilancia del farmacista è lì, nelle carte d’archivio: operai della fabbrica di birra, come Vincenzo Ceci, che assieme ad alcuni compagni «sulla via che da Capodimonte mena in città, imbattutosi negli agenti di città», risponde all’intimazione di scioglimento, affrontando i poliziotti e gridando «abbasso la sbirraglia, abbasso l’esercito, abbasso la casa Savoia, viva l’anarchia»76; cementisti, come Ettore Marchetti, che sarà poi segretario della sezione del PCdI di Sanpierdarena e la difenderà armi in pugno dall’assalto squadrista; elettricisti come Carlo Melchionna, sarti e impiegati come i fratelli Domenico e Sulpicio Aratari che il 10 giugno in Piazza Ferrovia, dopo che gli artiglieri hanno ucciso un carbonaio, sono tra gli anarchici che, distendono «su un carro a due cavalli […] il cadavere dell’individuo colpito» su cui hanno deposto «una corona strappata ad un carro funebre di passaggio», lo portano in giro per la città, «incitando alla vendetta quanti incontrano» e urlano «rivolgendosi alla polizia: assassini, vigliacchi, ammazzate i nostri fratelli, ci vuole vendetta, ci vuole sangue»77; metallurgici come il socialista Mario Scarpellino e Guglielmo Amitrano, sciabolato alla Corsea78; tessili, come Pietro Raimondi, che, come s’è visto, paga con la vita la partecipazione alla protesta; ferrovieri socialisti come Raffaele Brancati, ferito in via Depretis, e Felice Pausania, colpito alla testa sulle barricate erette a Porta Capuana79; calderai, come Francesco Nappi; arrotini, come i fratelli Michele e Angelo Mulieri, catturati dopo uno scontro a Piazza della Borsa80; cocchieri come Vincenzo Luongo che, per fermare i compagni crumiri, “capitanava una masnada di delinquenti suoi pari e faceva scendere i passeggeri”; fonditori come Salvatore Polverino; meccanici, come Eduardo Florio, arrestato alla Ferrovia mentre “eccita la folla a commettere disordini gridando “viva sempre la rivoluzione sociale”, ed Eugenio Pantaleo, che a Piazza Volturno, incalzato dalle furiose cariche dei carabinieri, «facendo le mosse d’impugnare una qualsiasi arma per offendere», attira gli inseguitori nei vicoli urlando la sua rabbia: «Vigliacchi, assassini, fatevi qui presso se avete coraggio!»81.
Un proletariato, come appare ormai chiaro, meno eterogeneo di quanto pensi la Marmo, che in piazza conta tra le sue fila più dirigenti sindacali di quanti ritenga Fatica e che esprime una protesta cosi omogenea e coraggiosa, da scatenare una violenta reazione di classe e un’intesa tra polizia e nazionalisti, che anticipa in qualche modo complicità che legheranno fascisti e forze dell’ordine nel dopoguerra82. Ne sono testimoni eloquenti le
parole del commissario di PS della sezione Vicaria, il quale, narrando al questore i dettagli dell’arresto di uno dei pochi anarchici ancora presenti in piazza, non esitava a scrivere:
«Come manifestai a V.S. Ill.ma con fonogramma 12 andante, in Piazza Ferrovia diversi gruppi studenti nazionalisti, ore 13 di detto giorno erano venuti alle prese con marmaglia teppista. Accorso sul posto con funzionario e carabinieri, mi fu dagli studenti consegnato Sinatra Antonio […] perché incitava alla rivolta. Durante giornata furono fermati altri teppisti nei vicoli di S. Nicola dei Caserti, S. Maria a Cancello e Piazza Tribunali e furono consegnati ai carabinieri della stazione di Vicaria»83.
Mentre il Sinatra, che aveva «osato stigmatizzare la condotta dei dimostranti nazionalisti, incitando gli astanti all’odio contro le istituzioni e le leggi», ridotto in manette, dichiarava la sua fede anarchica e «sputava in viso agli agenti» che lo trascinavano via,
«un corteo, formato da studenti per protestare contro gli atti teppistici a vandalici compiuti i giorni precedenti da facinorosi in occasione dello sciopero generale, procedeva per Corso Umberto I con bandiera, inneggiando a casa Savoia ed all’esercito»84.
Era il segnale dalla disfatta. Ovunque si formarono pattuglioni, si misero in moto cortei e si accesero scontri. Al Vomero, dove i nazionalisti, «organizzata una controdimostrazione […] con la bandiera nazionale, al grido di Viva l’Esercito, viva Casa Savoia, presero a correre per il rione», mentre la polizia arrestava i lavoratori che tentavano di affrontarli85, a San Giovanni a Teduccio, dove l’ostilità tra nazionalisti e operai sfociava, come s’è visto, in uno scontro a fuoco, a via Roma, dove «in occasione del passaggio della dimostrazione nazionalista» Nicola Fiore, noto dirigente sindacale, gridava «abbasso l’esercito, abbasso le istituzioni, viva la rivoluzione» ma, circondato «da un centinaio di cittadini che con atteggiamento minaccioso volevano linciarlo» era a stento sottratto alla folla dalla polizia86.
Come per un segnale convenuto, la borghesia passava all’offensiva e le sorti della protesta si rovesciavano. Notizie di vie imbandierate, di cortei nazionalisti «inneggianti al re, all’esercito e al governo, affrontati da gruppi di lavoratori con bandiera rossa […] sbandati dalla polizia», giungevano al Ministero dell’lnterno da Cosenza a Messina, dove la prefettura stessa spingeva in piazza i «galantuomini»; cortei di «cittadini che inneggiando governo, percorsero vie città e, incontrati scioperanti, diedero luogo a colluttazioni», mettevano fine alla protesta a Firenze, Verona e Venezia, dove, fattasi da parte la Camera del Lavoro, in «Piazza San Marco e adiacenze si ripeterono tafferugli tra studenti nazionalisti e socialisti»87. Senza alcun piano concordato, la reazione agiva compatta e sincronica e le manifestazioni seguivano ovunque una identica ispirazione. Reggio Calabria, salutava «entusiasticamente l’esercito», Cagliari schierava gli «uomini d’ordine» che «durante concerti musicali richiedevano inno reale e inno Mameli», Catania seguiva i nazionalisti che avevano organizzato «un comizio inneggiante al Re,
alla Patria e all’esercito» e percorrevano «in corteo le vie della città cantando inni patriottici», Potenza risuonava di “musica militare”, Salerno era percorsa da «una imponente dimostrazione di simpatia all’esercito» organizzata dai nazionalisti che «fra vivi applausi» richiedevano al “concerto cittadino, che suonava nei giardini, la marcia reale» e pretendevano «esposizione bandiera in alcuni uffici e edifici privati». Non si trattava del «Sud arretrato». Un quadro non diverso offrivano, infatti, Cremona, imbandierata dagli studenti nazionalisti per solidarietà con l’esercito, Milano, con la gente che incitava i militari a mettere mano alle armi, Bologna, Brescia, Modena, Roma e Torino, dove la folla applaudiva la truppa e i nazionalisti si scontravano con gli scioperanti88.
Dalla sanguinosa protesta veniva fuori un Paese per certi versi irriconoscibile: l’unità di classe cancellava divisioni geografiche e il proletariato, unito nella sconfitta, cedeva ovunque di fronte a un compatto moto di reazione borghese. Il 12 giugno la piazza era in mano ai borghesi. L’unità dei lavoratori, che avevano superato profonde divisioni ideologiche, non era bastata a unire i gruppi dirigenti. Forse aveva ragione Giacinto Menotti Serrati, poi dirigente comunista, quando, come segretario della Camera del Lavoro di Venezia, scriveva
«che uno sciopero generale di protesta non può mutarsi in insurrezione, quando i primi a patire per la nostra azione siamo noi stessi per mancanza d’intesa, di mezzi, di strumenti di lotta di notizie reciproche sicure».
Serrati però non provava a capire perché i capi socialisti erano giunti impreparati al nodo cruciale – è inutile, scriveva, «recriminare sulla ricerca di una responsabilità collettiva» – e invitava all’unità: «Procuriamo con opera concorde i mezzi per una effettiva intesa nell’azione definitiva comune»89. Una pia illusione. La sconfitta, in realtà, aveva fiaccato il morale degli operai e compromesso la prospettiva rivoluzionaria di fronte alla guerra. La via che avrebbe condotto il Paese al conflitto era ormai aperta e presto sarebbe stato evidente: la «simultaneità assicurata nel movimento», a cui Treves aveva legato il rifiuto della guerra, era una formula vuota. Dopo la sanguinosa protesta, molti dei giovani che avevano invano lottato contro il militarismo e la guerra sarebbero spariti nell’inutile macello seguito a Sarajevo. Un secolo dopo non c’e paese in cui una lapide non menta: «caduti per la patria». Cento anni non sono bastati a indurci alla necessaria correzione: «traditi dalla patria», bisognerebbe scrivere90. E’ questa la prospettiva storica in cui la Settimana Rossa colloca la «Grande Guerra». Quella guerra che invece propagandisti dell’esercito ricordano ai giovani nelle nostre scuole91.
Giuseppe Aragno
NOTE
1Richard J. Boswoorth, La politica estera dell’età giolittiana, Editori Riuniti, Roma, 1985, passim.
2Le lettere di Costantino Lazzari, Treves e Gobat le ho avute anni fa dal figlio di Silvano Fasulo, avv. Publio Valerio.
3 Jean Jaurés, L’anima padronale, «La Depéche de Toulouse», 28/5/1892.
4 Michele Fatica, Presentazione, in Giuseppe Aragno (a cura di), La Settimana Rossa a Napoli. Due ragazzi caduti per noi, La Città del Sole, Napoli, 2000, pp. 9-10.
5 Michele Fatica, Presentazione, in Giuseppe Aragno (a cura di), La Settimana Rossa a Napoli. Due ragazzi caduti per noi, La Città del Sole, Napoli, 2000, pp. 9-10.
6 Luigi Lotti, La Settimana Rossa, Le Monnier, Firenze 1965. Per un’aggiornata bibliografia sul tema rimando a Marco Severini (a cura di), La Settimana Rossa, Aracne, Roma, 2014. Tra i lavori recenti, Chiara Rosati, Il processo alla Settimana Rossa, Affinità Elettive, Ancona, 1914; Massimo Paini, Ancona e il mito della Settimana Rossa, Affinità Elettive, 2014.
7 Michele Fatica, Origini del fascismo e del comunismo a Napoli (1911-1915), La Nuova Italia, Firenze 1971, pp. 144, e Marcella Marmo, Il proletariato industriale a Napoli in età liberale, Guida, Napoli 1978, p. 484. Sull’evanescenza della condotta dei sindacalisti rivoluzionari, Orietta Lupo, I sindacalisti rivoluzionari nel 1914, “Rivista Storica del Socialismo” 32, 1970, pp. 43-82.
8 Michele Fatica, cit., p. 144.
9 La Marmo si interroga sul ruolo della classe operaia nella protesta, ma non prova a ricostruirlo perché, a suo dire, una «risposta non superficiale richiederebbe fonti più precise di quelle disponibili». Marcella Marmo, cit., p. 484.
10 Antonio Moroni, tipografo anarchico, dopo vari arresti per propaganda antimilitarista, finì alla compagnia di disciplina di Capri, da dove, nel novembre 1912, in una lettera all’ ”Avanti!”, denunciò i maltrattamenti che subiva. Riaccese così la polemica antimilitarista, ma pagò con il trasferimento a San Leo, nel Pesarese, in un’altra compagnia di disciplina, dove la persecuzione aumentò. In quanto al Masetti, il 30 ottobre 1911, prima di partire per la Libia, sparò a un ufficiale, ferendolo, e si dichiarò anarchico. Per evitare attacchi dell’Estrema, il governo fece passare l’episodio come il gesto di un folle; il soldato, sottratto alla corte marziale, rimase vent’anni in manicomio e divenne un simbolo dell’antimilitarismo. Nel 1935 non volle partecipare a un’adunata fascista per la guerra d’Etiopia e fu confinato. Durante la Resistenza, perse il figlio partigiano. Archivio di Stato di Napoli, (d’ora in poi ASN), Gabinetto di Questura, 1902-1971, II Parte, Schedario Politico, I Serie, busta (da qui in avanti b.) 1592, fascicolo, (da questo momento f.) «Moroni Antonio». Laura De Marco, Il soldato che disse no alla guerra. Storia dell’anarchico Augusto Masetti (1888-1966), Spartaco, Santa Maria Capua Vetere, 2003; Franco Bertolucci, Augusto Masetti, in Dizionario biografico degli anarchici italiani, diretto da Maurizio Antonioli, Giampiero Berti, Santi Fedele e Pasquale Iuso, Biblioteca Serantini, Pisa, II, 2004, pp. 118-120.
11 «I sotto firmati – si legge nella richiesta – protestano dell’arbitrio del governo italiano contro il detenuto Augusto Masetti nel manicomio criminale di Montelupo Fiorentino. Sapendo il risultato del suo processo con non luogo di procedere, irresponsabile dell’atto, oggi trovandosi in sana mentalità dev’essere lasciato in libertà come legge. In un’anime [sic] gridiamo libertà a Masetti». L’istanza, trasmessa a New York e inoltrata a Roma, si fermò al Ministero dell’Interno e non giunse mai al Procuratore di Venezia. Archivio Centrale dello Stato (d’ora in avanti ACS), Ministero dell’Interno, Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, Affari Generali e Riservati (d’ora in poi MI, DGPS, AA.GG.RR.) 1914, b. 22 f. «Agitazione pro Masetti e fatti di Ancona. Estero». Ivi, sottofascicolo (d’ora in avanti sf.) «New York», nota del 12-1-1914 e del 9-2-1914.
12 Ivi, note del 5 e del 15-5-1914.
13Augusto Masetti, «Le Reveille», Ginevra, 20-9-1913.
14 A Berna, il 31 agosto, l’«Unione Latina» aveva già promosso un comizio di Luigi Bertoni, che si era fermato sui rischi “della guerra dei Balcani e delle condizioni politiche dell’Europa, per dimostrare come ciò fosse voluto dai governi e dalla classe capitalistica per addormentare il proletariato e ripiombarlo nel suo antico servaggio”. Il cuore del movimento era a Zurigo, dove, superando steccati ideologici, i gruppi libertari della città, la sezione socialista, quella mazziniana, il Circolo Intransigente Repubblicano, gli anarchici di Wipkingen,il Sindacato Autonomo e quello dei manovali e muratori, avevano concordato il testo di un manifesto unitario. ACS, MI, DGPS, AA.GG.RR, 1914, b. 22 f. «Agitazione pro Masetti…», cit., sf. «Berna», nota dell’1-9, 24-11 e 1-12-1913. Sul Bertoni, Giampiero Bottinelli, Luigi Bertoni, la coerenza d’un anarchico, La Baronata, Lugano, 1997 e Idem, Bertoni Luigi, Dizionario biografico…, cit., I, Pisa, 2003, pp. 159-164.
15 Il numero unico «Liberiamo Masetti» fu stampato a Courbevoie, nei dintorni di Parigi. L’articolo del De Falco si intitolava Il valore di un gesto. Il 29 e 30 novembre 1913, a Zurigo e Losanna, avevano parlato i socialisti Angelo Faggi e Giuseppe De Falco; a Oerlikon c’erano stati il repubblicano Gino Lori e l’anarchico Bertoni; a Lucerna, poi, il 7 e 14 dicembre 1913, avevano fatto comizi il De Falco e l’anarchico Eugenio Girolo. ACS, MI, DGPS, AA.GG.RR, 1914, b. 22 f. «Agitazione pro Masetti…», cit., , sf. «Parigi», nota dell’1-12-1913, e sf. «Berna», note dell’1-12-1913 e del 10-12-1913. Maurizio Antonioli, Girolo Eugenio, in Dizionario biografico…, cit., I, Pisa, 2003, pp. 733-734, e Roberto Giulianelli, Luzi Lelio, ivi, II, 2004, pp. 50-51..
16 Il 20 dicembre 1913 l’accordo fra anarchici e socialisti rischia di saltare per un articolo uscito su «L’Avvenire del Lavoratore», nel quale si biasimano gli anarchici «perché non è serio «ricorrere a balli e a lotterie per venire in aiuto del Masetti e ottenerne la liberazione». E’ probabile che dietro la polemica si celino le divisioni ideologiche ed è significativo che il giorno seguente, a Berna, dov’era in programma un suo comizio con Luigi Bertoni e Angelica Balabanoff, il Faggi si ritrovi solo; l’incidente, tuttavia, non causa una rottura. Un «grande comizio», per dirla con la polizia, tengono invece a Zurigo l’8 marzo 1914 Bertoni, Luzi e De Falco. ACS, MI, DGPS, AA.GG.RR., 1914, b. 22, f. «Agitazione pro Masetti…», cit., sf. «Berna», note del 18-12 e del 22-12-1913 e del 10-1, 5-3, 8-4 e 8-6-1914.
17 A Londra trova consensi invece il numero unico «Liberiamo Masetti»e l’«Herald Tribune» dà spazio sia alla vicenda Masetti, che a quella di Dario Fieramonte, finito in una compagnia di disciplina per aver rifiutato di giurare fedeltà al re e agli ufficiali. Ivi, sf. «Londra», note del 9-12-1913 e dell’8-1-1914; The World’s Workers. Italian repession, «Herald Tribune», 5-12-1913; Maurizio Antonioli, Dario Fieramonti, in Dizionario biografico…, cit, I, Pisa, 2003, pp. 613-14.
18 ACS, MI, DGPS, AA.GG.RR., 1914, b. 22, f. «Agitazione pro Masetti…», cit., sf. «Parigi», nota del 3-11-1913.
20 Une iniquité. Masetti doit etre liberé, «Le Libertaire», 1-11-1913.
21 Kropotkin comunicò al «Comitato per Masetti e le vittime politiche spagnole» l’appoggio personale e quello dei rivoluzionari russi. ACS, MI, DGPS, AA.GG.RR., 1914, b. 22, f. «Agitazione pro Masetti…», cit., sf. «Marsiglia», nota del 13-1-1914. Per la partecipazione di Faure e degli altri rivoluzionari, ivi, nota del 27-1-1914 e sf. «Parigi», note del 3, 10, 18 e 22/11-1913, del 22-12-1913, del 12 e 17-1-1914. Amilcare Cipriani scrisse l’articolo Augusto Masetti uscito su «L’Humanité» l’1-12-1913. Merlino era intervenuto il 7-11-1913 su «La Battaille Syndacaliste» con l’articolo Masetti à la prison des fous. 22 A far conoscere la ferocia del sistema punitivo francese furono, nel 1890 il romanzo Biribi, di Georges Darien, seguito l’anno dopo da un’omonima canzone di Aristide Bruant. Rousset, finito alla sezione disciplinare di Dar El-Djenan per una rissa, fu testimone della morte del militare Albert Aernoult, ucciso dalle bastonate e dalla fatica disumana, e denunciò l’omicidio in una lettera aperta. Fu perciò condannato a cinque anni di carcere, ma nel 1910 la sua denuncia risultò decisiva per la chiusura di «Biribì» e il trasferimento delle strutture punitive in Francia.
Grazie a una forte campagna di solidarietà, Rousset fu graziato nel 1911. ACS, MI. DGPS, AA.GG,RR., 1914, b. 22, f. «Agitazione pro Masetti…», cit., sf. «Parigi», nota del 10-11-1913, cit.; Jhon Cerullo, The Aernoult-Rousset Affair: Military Justice on Trial in Belle Époque France, in Historical reflections Reflextions Historiques, Berghahn Book, Canada, 2008, pp. 4-24.
23 ACS, MI. DGPS, AA.GG.RR., 1914, b. 22, f. «Agitazione pro Masetti…», cit., nota del 3-11-1913, cit.
24 Ivi, nota del 12-1-1914, cit., e Liberté pour Masetti, manifesto per un meeting di protesta del 15-1- 1914, firmato dal «Comitato per la Difesa Sociale» e dal «Gruppo Rivoluzionario Italiano»; sf. «Marsiglia», nota del 29-12-1913.
25 L’agitazione per Masetti in Italia, «La Battaille Sindacaliste”, 27-11-1913. 26 Nelly Roussel, Han Ryner, Derniers Combats, L’Emancipatrice, Paris, 1932, p. 109; Eadem, L’éternelle sacrifiée, préfazione, note e commenti di Maïté Albistur, Daniel Armogathe, Syros, Paris, 1979 Georg Duby e Michelle Perrot, Storia delle donne in Occidente, Il Novecento, a cura di Françoise Thébaud, Laterza Roma-Bari, 1997, passim,
27 Pour les Prisonniers de tous pays, “Les Tempas Nouveaux, 21.1.1914.
28 ACS, MI, DGPS, AA.GG.RR., 1914, b. 22, f. “Agitazione pro Masetti..”cit., sf. “Parigi”, Manifesto cit. e Pour les Prisioniers…”, cit.
29 Ivi, nota dell’11-4-1914, e Solidarité Internationale, “Les Temps Nouveaux”, 9-5-1914.
30 Contro “l’esecrato assassinio di Ancona” e “la dinastia di Savoia, […] genìa di traditori”, parlarono Felice Vezzani, Angelo Faggi e il napoletano Ugo del Giudice per gli anarchici, René Gilbert per i socialisti francesi ed Ernesto Oldoini per quelli italiani. Ivi, note dell’8 e del 10-6-1914. James A Baer, Anarquiste immigrants in Spain and Argentina, University of Illinois Press, Urbana, Illinois, 2015.
31 Luigi Lotti, cit., pp. 53-60.
32 ACS, MI, DGPS, AA.GG.RR., 1914, b. 23, f. «Agitazione pro vittime politiche e contro le compagnie di Disciplina», sf. «Bologna», nota del 20-12-1912, e b. 24, sf. «Parma» nota del 15-11-1912.
33 Ivi, sf. «Genova. Conferenza di Libero Merlino. Agitazione per Masetti», nota e teleg.mi dal 13-2-1913 all’1-6-1914. Giuseppina Galli parlava a nome dell’«Alleanza Internazionale Rivoluzionaria». Ivi, nota 2974 del 9-4-1914. Antonio Mameli, Pasquale Binazzi, in Dizionario biografico…, cit., I, 2003, pp.189-195; Giuseppe Aragno, Libero Merlino, ivi, II, 2004, pp. 168-69; Luigi Di Lembo, Fosco Posani, ivi, p. 376; Maurizio Antonioli, Maria Rygieir, ivi, pp.466-68; Albero Ciampi, Alfredo Squaglia, ivi, p.573.
34 A Bologna operava il Comitato di agitazione, formato da Amedeo Giovannini, Ettore Cuzzani, Maria Rygier, Aristide Venturini Ferdinando De Cinque, il deputato Alessandro De Giovanni, del Consiglio Direttivo della CGdL. ll 3 marzo 1914, per consentire a Salandra di rispondere a De Giovanni, che gli chiedeva «i motivi per cui venne inibito il comizio pubblico pro soldato Masetti a Gaggio in provincia di Bologna», il prefetto Dallari scrisse che l’ agitazione non mirava a liberare il Masetti; essa era promossa da elementi sovversivi a «scopo […] di propaganda contro Esercito», per inculcare nei giovani di preferenza presenti ai comizi «idee antimilitariste, ribellione ed uso armi contro superiori. […] Consentire libertà di comizio su basi simili potrebbe implicare riconoscerne la legalità non solo nei rapporti dell’individuo e del delitto commesso, ma anche agli effetti della deplorevole propaganda». Timori, stati d’animo e atteggiamenti psicologici che, contribuiranno a scatenare la violenta reazione nelle piazze. ACS, MI, DGPS, AA.GG.RR., 1914, b. 22, f. «Agitazione pro vittime…», cit., sf. «Bologna», teleg. del e del 3-3 e del 30-3-1914 e nota del 28-2-1914.
35 A gennaio del 1913, dopo l’amnistia concessa per alcuni reati politici, la Camera del Lavoro ritirò la sua adesione al Comitato, dal quale si dimise il repubblicano Angelo Filistrucchi. Ivi, nota dell’8-1-1913. A Firenze, dove assieme all’onnipresente Rygier furono molto attivi il
ferroviere socialista Domenico Maitilasso e l’anarchico Virgilio Mazzoni, a giugno del 1912 tenne un comizio Benito Mussolini. Ivi, b. 23, f. «Agitazione. Pro vittime … », cit., sf. «Firenze», note del 20-6 e del 30-11-1912.
36 Ivi, b. 24, sf. «Perugia», teleg. del 30-3-1914.
37 Durante un comizio, a febbraio, Turati e Rigola erano stati duramente attaccati dal repubblicano Rizzini, dal sindacalista Filippo Corridoni e dall’anarchico Domenico Zavattero. Le difficoltà dei riformisti preoccupavano il prefetto, cui non sfuggivano né le continue riunioni «al Fascio Giovanile Socialista, al Fascio Operaio Sindacale Milanese, al Comitato Esecutivo della Camera del Lavoro e alla Casa del Popolo», né l’audacia dei «sovversivi» che, beffandosi dei carabinieri che sorvegliavano l’edificio, la notte giungevano fin sotto il carcere militare dove era tenuto Moroni, gli gridavano parole di simpatia, poi sparivano nel nulla. Ivi, b. 23, f. «Agitazione pro vittime…», sf. «Milano», nota del 22-3-1913 e teleg. del 25-3-1914.
38 Via dall’Africa, Abbasso la guerra e La grande adunata meridionale contro la guerra, «La Propaganda», 17-18 e 18-19-5-1912.
39 ACS, MI, DGPS, AA.GG.RR., 1914, b 24, f. «Sciopero per i fatti di Ancona», sf «Messina», nota del 4-6-1914.
40 Ivi, sf «Potenza».
41 Ivi, b. 23, f. «Agitazione pro vittime.,.», cit., sf. «Foggia» e sf. «Lecce» Nei mesi che precedettero i moti, Meledandri e Di Vittorio ebbero contatti con il «Comitato di Agitazione» operante a Parigi, dal quale ricevettero anche, per farlo circolare in Puglia, il numero unico «Liberiamo Masetti». ACS, MI, DGPS, AA.GG.RR., 1914, b. 22, f. «Agitazione pro Masetti…», sf. «Parigi», nota dell’1-12-1913, cit.
42 «La Riscossa» 5-3, 1 e 11-10-1911.
43 «Verso la Vita», 29-4 i6-9-1912.
44 ACS, MI, DGPS. AA.GG.RR., 1914, b. 22, f. «Agitazione pro vittime…», cit., sf «Teramo».
45 Marcella Marmo, cit., p. 470.
46 «Bollettino Ufficiale del lavoro», nuova serie, 7, 1914, p. 6 e Michele Fatica, cit., p. 134.
47 ACS, MI, Ufficio Cifra, arrivo, teleg. del 24-4-1914.
48 I dati raccolti dagli uffici centrali di PS, molto imprecisi per quanto riguarda Napoli, sono in ACS, Carte Salandra, scatola 8, f. 62 e in Luigi Lotti cit., Appendice, II e III. Per «La Protesta», Ivi, Casellario Politico Centrale (d’ora in avanti CPC), b. 4827, f. «Sinatra Antonio», e Movimento sindacale. Ai lavoranti in legno, “Soviet”, 22-12-1918; sul Vanguardia, Giuseppe Aragno, Carcerati e carcerieri. Umberto Vanguardia, in Idem, Antifascismo e potere. Storia di storie, Bastogi, Foggia, 2012; Fabrizio Giulietti, Umberto Vanguardia, Azione e propaganda di un anarchico napoletano (1879-1931), Galzerano, Casalvelino Scalo, 2009; di Fedele, Mauriello, Melchionna e Vanguardia, esistono i fascicoli personali in ACS, CPC, rispettivamente b. 1984, 3147, 3204 e 5312. Giuseppe Aragno, Armido Abbate e Carlo Melchionna, in Dizionario biografico…, cit., I, pp. 2-3 e II, 2004, pp. 150-151; l’esistenza di una nuova documentazione induce ad accogliere con prudenza le notizie raccolte da Lotti sulla consistenza del movimento anarchico a Napoli. Luigi Lotti, cit., Appendice, II.
49 ACS, CPC, b. 2076, f. «Fiore Nicola» e b. 921, f. «Cacace Ettore».
50 Ivi, b. 3204, f. «Melchionna…», cit. Un articolo di Melchionna, intitolato Alle nuove reclute divenute soldato, uscì sul «Rompete le file» il 26 gennaio 1914. Non è vero, quindi, come crede Bettini, che il giornale cessò le pubblicazioni nel settembre del 1913; Leonardo Bettini, Bibliografia dell’anarchia, Periodici e numeri unici anarchici in lingua italiana pubblicati in Italia (1872-1971), Crescita politica, Firenze, 1972, I, tomo I, pp. 223-24.
51 Pasquale Iuso, Ignazio Andreani, in Dizionario biografico…, I, cit. pp. 35-36, e Archivio di Stato di Napoli, Questura, Polizia Amministrativa e Giudiziaria (d’ora in poi ASN, Q, PAG) 1914, b. 420, f. «Andreani Ignazio».
52 Il Comitato di agitazione era formato dai ferrovieri Misiano, Barbato, Ippodrino, Portanova e Crecchi, ACS, MI, DGPS, AA.GG.RR, 1914, b. 26, f. «Riunioni del Consiglio Federale dell’Unione Sindacale a Bologna», nota del 6-4-1914 e Michele Fatica, cit., p.125.
53 ASN, Q, PAG, b. 390, f. «Melchionna Carlo», verbale di denuncia del 14-6-1914 e nota del 18-6-1914.
54 Durante gli scontri, le navi da guerra Giulio Cesare e Dante Alighieri tornarono in porto con le loro compagnie da sbarco, che il giorno 11 giugno intervennero ripetutamente contro i dimostranti. Ivi.
55 Luigi Lotti, cit., pag. 136.
56 ASN, Q, PAG, b. 390, f. «Macri Vincenzo», nota del 10-6-1914, e I treni da Napoli sono partiti regolarmente, «Il Mattino» 9-10-6-1914. Accusato di resistenza e oltraggio, il Macri fu condannato a cinque mesi di reclusione col beneficio della condizionale. Ivi, Sezione Giustizia, (d’ora in poi SG), Tribunale Penale (in seguito TP), XII Sezione (d’ora in avanti Sez.) sentenza 486 del 25-6-1914 e SG, Corte di Appello, Sentenze Penali 1914, (d’ora in avanti CASP), VI Sez., sentenza del 13-2-1915.
57 Luigi Lotti, cit., pp. 234 e 241.
58 ASN, Q, PAG,, b. 394, f. «Miceli Gennaro»; b. 396, f. «Raimondi Pietro», nota del 23-6-1914.
59 Dopo aver mentito, sostenendo che c’è stato «un unico conflitto nel quale sono rimasti uccisi i due individui», il questore ordina al Commissario di Sezione Mercato di «redigere unico rapporto ribadendo questo punto di vista, raccogliendo tutti quegli elementi generici e specifici che valgano a giustificare l’uso delle armi come suprema necessità di difesa». Alla «solerte abilità» del funzionario affida la stesura «di un preciso particolareggiato rapporto per la realizzazione del quale è opportuno prenda i necessari accordi col colonnello cav. Graziani, che comandava la truppa». Ivi, fonogramma del 13-6-1914, note dell’1-7-1914 e del 2-7-1914.
60 Le accuse rivolte a ignoti «sovversivi» risultarono campate per aria. Il giudice istruttore, che non seppe mai nulla della vicenda del veterinario, si limitò a sporgere denunzia contro ignoti, sicché il giudizio in tribunale fu solo una formalità. «Osserva la corte – si legge nella sentenza – che dall’istruzione non sono stati liquidati gli autori degli omicidi in persona del Raimondi e del Miceli e non si è levata rubrica contro per tali assassinii; deve quindi dichiararsi senz’altro non luogo a procedere». Ivi, Q, PAG, b. 394, f. «Miceli Gennaro»; b. 395, f. «Bini Enrico», fonogramma del 12-6-1914 e b. 396, f. «Raimondi Pietro». SG, CASP, Sez. Accusa sentenza 1063/914 del 28/12/1914. .
61 Del manipolo di anarchici che a Napoli si distinsero nella protesta, Antonio Sinatra, Carlo Melchionna e Salvatore Mauriello furono poi dirigenti della Camera Confederale del Lavoro. Il Mauriello, passato ai comunisti, fu delegato al Congresso internazionale dei sindacati rossi a Mosca nel 1921 e tra i dirigenti del PCI arrestati e processati nel 1923. Combattente delle Quattro Giornate, nel secondo dopoguerra tornò al suo posto nel partito. ACS, CPC b, 3167, f. «Mauriello…», cit., b. 3204, f. «Melchionna…», cit., b. 4287, f. «Sinatra…» cit., e Giuseppe Aragno, La Camera del Lavoro…, cit., passim.
62Marcella Marmo, cit., pp. 480-87.
63 Le sentenze si trovano in ASN, SG, TP e CASP. L’attendibilità delle notizie riportate dalla stampa è sorprendente: imputati, processi e sentenze ritrovati in Archivio sono, infatti, quasi sempre registrati correttamente nelle cronache cittadine, che offrono addirittura la possibilità di ritrovare sentenze dei processi a militanti, di cui mancano i fascicoli nelle carte di polizia. E’ il caso, per esempio, di Giuseppe Caccia, Vincenzo De Lucia, Vincenzo Monti, feriti negli scontri, di Vincenzo Ceci ed Ernesto Pastena, operai della birreria, e del facchino Luigi Rapone, arrestati tra l’11 e il 12 giugno e inclusi negli elenchi di manifestanti pubblicati dal «Roma» e da «La Libertà», dai quali sono partito per ritrovare i loro processi in ASN, SG, TP, sentenze 1487-323, 355-321, 1077-322 e 3204-268.
64Il giovane era stato arrestato con Michele Cutolo, Eugenio Esposito e Muscetti Raffaele, in un vicolo cieco, dal quale, a dire della polizia, erano partiti sassi che avevano ferito a un dito un agente. Il giudice fu costretto a notare che l’imputato non poteva aver agito «in riunione di oltre dieci persone e previo concerto», perché dal verbale di arresto risultava che nel vicolo «non vi erano altri individui all’infuori dei giudicabili»; nulla provava, poi, che l’agente avesse riportato «lesione […] dal lanciamento delle pietre o nella colluttazione avuta con gli imputati». Ritenne però «compiacenti» i testimoni a discarico e condannò lo Stingo a 8 mesi e 10 giorni di carcere, il Cutolo a un anno e 20 giorni, l’Esposito e il Muscetti a 10 mesi. Ivi, Q, PAG., b. 388, f. «Stingo Enrico», e SG, TP, XIII Sez. sentenza 620 del 16-7-1914 e 2500-324 del 6 agosto 1914.
65 L’illegale sentenza a danno di Sbriglia fu annullata solo tre mesi dopo ma l’imputato, benché incensurato, non ottenne la libertà provvisoria e rimase in carcere fino al 12 dicembre, quando, ripetuto il processo, la pena fu ridotta a 10 mesi e il giovane usufruì dei benefici concessi dalla legge. Ivi, Q, PAG, b. 410, f. «Municipio di Napoli. Amministrazione» e b. 388, f. «Sbriglia Giuseppe»; SG, TP, V Sez. sentenza 555 del 17-6-1914 e XIII Sez, sent 613 del 18-6-1914; CASP, IV Sez, sentenza del 6-10-1914 e VI Sez, sent del 10-12-1914.
66 Ivi, V Sez, sentenza 565 del 19-6-1914, CASP, VI Sez, sentenza del 12-11-1914 e Q, PAG, b. 410, f. «Totaro Natale».
67 In appello la pena fu ridotta a 15 mesi e 250 lire di multa. Ivi, CASP, III Sez, sentenza del 25-9-1914, TP, III Sez, sentenza 557 del 17-6-1914; Q, PAG, b. 410, f. «Municipio di Napoli. 13-6-1914».
68 Ivi, b. 410, f. «Paciello Giacomo» e SG, TP, IX Sez. sentenza 2237-267 del 24-7-1914. La condanna subita nel processo per direttissima fu ridotta in appello a due anni di carcere e due di vigilanza speciale. Ivi, SG, CASP, anno 1914, VI Sez. sentenza del 14-11-1914.
69 Ivi, TP, V Sez, sentenza 2108-266 del 18-6-1914 e ASN, Q, PAG, b. 410, f. «Nicolella Vincenzo». In appello, il giudice affermò che «i principali agitatori, coloro che per partito preso seppero creare quella convulsione potettero pure sfuggire alla giusta repressione dello Stato costituito” e che “rimasero avviluppati gli incoscienti, coloro che non seppero resistere alla morbosa influenza del momento»; ridusse infine a quindici mesi una pena che era tuttavia pesantissima. Ivi, CASP, VI Sez, sentenza del 26-11-1914.
70 Marcella Marmo, cit., p. 483.
71 La mattina del 13 gli scontri erano praticamente cessati. Scioperavano ancora i ferrovieri, che, però, si accingevano a riprendere servizio. Nel compartimento di Napoli i ferrovieri licenziati furono 12 e 75 quelli retrocessi. Tra i licenziati c’era Bordiga, unico caso di funzionario che era stato dalla parte dei caduti di Ancona. Michele Fatica, cit., pp. 184-187, «Bollettino Ufficiale delle Ferrovie dello Stato», 18-7, 6 e 20-8 1914, e ASN, Q, PAG, b. 393, f. «Treno n. 1810 in partenza per Roma». `
72 A Napoli la prima riunione ufficiale, dopo i fatti di Ancona, fu tenuta dalla Commissione Esecutiva della Borsa del Lavoro la sera dell’8 giugno e si concluse con la convocazione del Consiglio delle leghe per l’indomani alle 20. Per oggi niente sciopero generale a Napoli, «Il Mattino», 9-10-6-1914.
73 Sia la Marmo che Fatica sottolineano il ritardo con cui a Napoli si sarebbe giunti allo sciopero, attribuendolo a collusioni tra dirigenti della Borsa del Lavoro ed esponenti della borghesia progressista, uniti da un accordo per le imminenti elezioni amministrative. Sta di fatto, però, che in ritardo si scioperò anche ad Arezzo, Belluno, Brindisi, Cerignola, Foggia, Grosseto, Lucca, Massa Marittirna, Salerno, Siena, Verona, Vicenza e Udine; a Cremona lo sciopero iniziò addirittura l’11. Lo sciopero generale in tutta Italia, «Roma», 10-6-1914; Michele Fatica, cit., p. 145, Marcella Marmo, cit:, p. 481; ASN, Q, PAG, b. 390, f. «Melchionna…», cit., verbale di denuncia, cit., e nota del 18-6-1914; b. 410, f. «Ferrovie dello Stato (Amministrazione) 30-8-1914», note del 30-6, 31-7 e 28-8-1914; f. «Caserma RR.CC. S. Onofrio alla Vicaria», fonogramma del 31-8-1914; b. 390, f. «Mulino S. Erasmo», nota del 15-6-1914 e f. «Minieri Giovanni”, nota del 13-6-1914 e fonogramma del 12-6-1914. ACS, MI. DGPS, AA.GG.RR.,
1914, b. 23, f. «Agitazione pro Masetti…», cit., sf. «Arezzo», «Brindisi», «Cremona», «Foggia», «Grosseto», «Lucca», «Massa Marittima», «Salerno», «Siena», «Vicenza», «Verona» e «Udine».
74 ASN, Q. PAG, b. 396, f. «Onesto Giuseppe», nota del 15-6-1914, e f. «Raimondi Pietro»; b. 397, f. «Miceli Gennaro», nota dell’11-6-1914 e del 12-6-1914.
75 Ivi, b. 394, f. «Iodice Pasquale», nota del 30-8-1914; b. 394, f. «Marziale Giuseppe», fonogramma dell’11-6-1914, f. «D’Elia Vincenzo», fonogramma del 12-6-1914, b. 395, f, «Brancaccio Grazia», nota del 18-6-1914 e b. 410, f. «Caserma RR.CC. Sant’Onofrio…», cit.
76 Fatica fa riferimento a una «avanguardia operaia forte e combattiva», ma la Marmo lo accusa di utilizzare formula generiche, senza tentare «un bilancio della composizione precisa delle minoranze operaie più attive nei moti» e minimizza la presenza di operai che, in quanto meridionali, immagina «arretrati», né più né meno di quanto per Fatica non siano «rozzi» gli anarchici che assumono la direzione del movimento, abbandonato al proprio destino dalla ritirata di riformisti e rivoluzionari alla Mussolini. Marcella Marmo, cit., p. 484; Michele Fatica, cit., pp. 146-47 e 189-90. In realtà, sarebbe stato facile partire dagli elenchi di manifestanti riportati dalla stampa e dalle note di polizia, per ritrovare protagonisti della Settimana Rossa o loro parenti e raccoglierne i ricordi come preziosa e ormai smarrita “fonte orale”. Provai a farlo, molti anni fa, dopo la pubblicazione del lavoro della Marmo, con risultati sorprendenti: su trenta ricerche avviate, dodici mi consentirono di scoprire il lavoro svolto, le opinioni politiche e interessanti storie di militanza.
77 ASN, Q, PAG, b. 410, f. «Ferrovie dello Stato. Amministrazione…», cit., relazione del 30-6-1914 e nota del 16-6-1914. Nei ricordi affidati a chi scrive del figlio Vincenzo, Giuseppe Confessore fu operaio al pastificio Ciaccio e attivo sindacalista. Girolamo Lucarelli, arsenalotto licenziato per motivi politici, fondò la sezione del PSI di San Giovanni a Teduccio e fu attivo propagandista tra mugnai e pastai. Fedele agli ideali socialisti, fu sorvegliato fino alla caduta del fascismo. Arcangelo De Cicco fu segretario del circolo operaio socialista «Libertà e Giustizia» e dirigente della «Lega Mugnai». Vincenzo Elegante fu tra i dirigenti della Federazione dei lavoratori dell’Arte Bianca e partecipò al Congresso Meridionale di categoria nel 1921. Vincenzo Gallo, dirigente della Camera del Lavoro e del PCdI e antifascista schedato, combatté nelle Quattro Giornate e nel 1944 lo si ritrova tra i protagonisti della rinascita della CGL e dell’aspro scontro che separò a Napoli i militanti del PCI dopo le Quattro Giornate. ACS, CPC, b. 2855, f. «Lucarelli Girolamo», b. 1647, f. «De Cicco Arcangelo» e b. 2257, f. «Gallo Vincenzo»; Congresso Meridionale Lavoratori Arte Bianca, “Soviet”, 1-10-1921; Documenti, «Battaglie Sindacali», 13-8-1914 e Francesco Gilioli, Fedeli alla classe. La CGL rossa tra occupazione alleata del Sud e “svolta di Salerno” (1943-45), autoprodotto, 2013.
78 ASN, SG, CASP, IX Sez, sentenza 485 del 28-9-1914. 79 Ivi, Sez Accusa, sentenza 864 del 12-2-1915; Q, PAG, b: 390, f. «Melchionna…», verbale 167, cit. Tra i protagonisti della Settimana Rossa a Napoli, l’anarchico Marchetti passò ai comunisti e durante il fascismo fu in contatto con dirigenti e militanti del partito clandestino. Dei fratelli Aratari, Sulpicio fini fascista, mentre Domenico si trasferì a Firenze, dove fondò una «Lega di resistenza delle sarte» e fu tra gli esponenti di spicco dell’Unione Anarchica Fiorentina. Colpito da un mandato di cattura dopo sanguinosi scontri con i fascisti, nel 1921 fuggì in Svizzera e in Francia; nel 1922, condannato all’ergastolo, assunse l’identità di Adario Moscallegra emigrò in Argentina e poi a Montevideo, in Uruguay, dove diresse «La Protesta» e subì vari arresti.ACS, CPC, b. 3028, f. «Marchetti Ettore», b. 172, f. «Aratari Domenico» e f. «Aratari Sulpicio»; ASN, SG, CASP, Sez. Accusa, sentenza 864, cit. Giuseppe Aragno, Domenico Aratari, in Dizionario biografico…, cit., pp. 46-47 e Luigi Di Lembo, Guerra di classe e lotta umana, Biblioteca Serantini, Pisa, 2001.
80 ASN, Q, PAG, b. 390, f. «Amitrano Guglielmo», nota 4465 del 14-6-1914 e b. 410, f. «Municipio di Napoli, 16-6-1914», nota del 13-6-1914. Il lavoro di Scarpellino, militante del PSI, è ricavato da una dichiarazione rilasciata a chi scrive dalla nipote Anna Scarpellino.
81 Ivi, b. 410, f. «Brancati Raffaele», nota del 13-6-1914, e b. 416, f. «Pausania Felice», fonogramma del 13-6-1914; SG, TP, XII Sez. sentenza 495 del 25-6-1914 e IX Sez, sentenza 548 del 24-8-1914. Il lavoro e la militanza sono ricavati da dichiarazioni rilasciate a chi scrive da Teresa Gallo, cugina del Pausania, e Tommaso Brancati, figlio di Raffaele.
82 Ivi, Q, PAG, b. 387, f. «Bruno Vincenzo», nota del 12-6-1914; b. 388, f. «Mulieri Angelo» nota del 13-6-1914; SG, TP, IX Sez, sentenza 459 del 4-8-1914, e CASP, VI Sez, sentenza del 2-9-1914. Il lavoro dei due Mulieri è ricavato da una dichiarazione rilasciata a chi scrive dal nipote Giuseppe Mulieri.
83 Ivi Q. PAG, b. 387, f. «Giacobbe Giuseppe», nota del 13-6-1914; f. «Ottieri Aniello», nota dell’11-6-1914; b. 410, f. «Polverino Salvatore», nota del 19-6-1914; b. 390, f. «Pantaleo Eugenio», fonogramma dell’11-6-1914; TP, V Sez, sentenza 599 del 6-7-1914; SG, CASP, VI Sez, sentenza del 26-8-1914, e VI Sez, sentenza dell’11-9-1914.
84 Marcella Marmo, cit., pp. 146-147; Michele Fatica, cit., p. 486.
85 ASN, Q. PAG, b. 388, f. «Sinatra Antonio», fonogramma del 14-6-1914.
86 Ivi, nota 4510 del 14-6-1914.
87 Ivi, b. 390, f. «Minieri Giovanni», nota del 13-6-1914. E’ evidente che gli scontri non si verificarono solo, come comunemente si crede, al centro della città.
88 Ivi, b. 388, f. «Fiore Nicola», verbale di arresto dall’11-6-1914.
89 ACS, MI, DGPS, AA.GG.RR., 1914, b. 23, f. «Agitazioni pro Masetti…», cit., sf, «Cosenza», teleg. del 14-6-1914 e nota del 15-6-1914; sf. «Venezia», teleg. del 13-6-1914; f. «Sciopero per i fatti di Ancona», sf. «Messina», teleg. del 15-6-1914; f. «Agitazione Pro Masetti e contro le compagnie di disciplina», sf. «Firenze”, nota del 12-6-1914; b. 24, f. «Agitazione pro Masetti e per i fatti di Ancona», sf. «Verona», teleg. del 12-6-1914.
9oIvi, b. 22. f. «Agitazione pro vittime politiche e contro le compagnie di disciplina. Bologna», fonogramma dell’11-5-1914; b. 23, f. «Agitazione pro vittime politiche…», cit., sf. «Cagliari», teleg. del 15-6-1914; sf. «Catania», teleg. del 13-6-1914; sf. «Cremona», teleg. del 13-6-1914; b. 24, f. «Agitazione pro Masetti e per i fatti di Ancona», sf. «Reggio Calabria», teleg. del 13-6-1914; sf., «Potenza», teleg. del 14-6-1914; sf. «Salerno», teleg. dell’11-6-1914; sf. «Brescia», teleg. del 12-6-1914. Luigi Lotti, cit., pp. 113-14, 151 e 256.
91ACS, MI DGPS, AA.GG.RR., 1914, b. 24, f. «Agitazione pro Masetti…», cit., sf. «Venezia», teleg. del 15-6-1914.
91 Nel 1918, dopo aver puntato su una folle strategia offensiva che sacrificò centinaia di migliaia di giovani, il Comando Supremo ottenne l’arruolamento dei diciassettenni. Senza entrare nel merito della ferita che il conflitto arrecò al fragile tessuto democratico del Paese – fu la guerra che aprì la via al fascismo – val la pena ricordare la sorte riservata ai nostri soldati prigionieri. La guerra fu combattuta, com’è noto, contro la volontà della maggioranza del Paese. Da qui, dalla consapevolezza di una tragica forzatura, il timore che i soldati disobbedissero o disertassero e la volontà di «punire» i prigionieri, rifiutandosi di alimentarli, come fecero, invece, Francia e Inghilterra. Dei 600.000 prigionieri italiani, quasi 100.000 morirono di fame, aggiungendosi ai 402.000 caduti in battaglia e ai 169.000 uccisi da malattie. I morti per fame, quindi, furono il 18 % del totale degli uomini persi. Il timore della diserzione «agi sul Comando Supremo a livello di pensiero ossessivo e dominante» e «la morte in massa dei soldati prigionieri fu provocata e addirittura in larga parte voluta dal governo italiano e soprattutto dal Comando Supremo. Cosicché l’Italia trasformò il problema dei prigionieri di guerra, che tutti i governi dovettero affrontare con urgenza, in un vero e proprio caso di sterminio collettivo». Giovanna Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella grande guerra, Editori Riuniti, Roma, 1993, pp. 134-35 e 161. «Se ti arrivasse notizia che sono morto – scrisse un soldato il 15 aprile 1917 – non dire che sono morto per la Patria, ma che sono morto per i signori, cioè per i richi [sic], che sono stati la causa di tanti buoni giovani, la colpa della sua morte [sic]». Sono parole che andrebbero scritte sulle mille lapidi che celano una vergogna. In questo senso occorrerebbe
indirizzare una ricostruzione delle agitazioni contro la guerra che precedettero l’intervento dell’Italia. Ivi, p. 55 92 Protocollo d’intesa firmato a Roma l’11 settembre 2014 dal ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Stefania Giannini, e dal ministro della Difesa, Roberta Pinotti.
Questo lavoro è una versione riveduta e aggiornata di un breve saggio che intitoli La settimana Rossa. Appunti e note, uscito sul «Giornale di Storia Contemporanea», Anno VIII, 1 giugno 2005, pp. 27-58.
Ai confini della memoria. La Settimana Rossa, 7- 14 giugno 1914
Sotto la spinta della recessione economica del 1909 la politica di Giolitti si allontana dal campo della mediazione e si appoggia ai grandi gruppi industriali e al capitale finanziario con la Banca Commerciale come attore principale. L’impresa coloniale italiana in Libia del 1911 risponde alla fame di profitti di questi potentati economici tra i quali il Banco di Roma, legato all’aristocrazia e al vaticano, che aveva sui territori libici concessioni minerarie, terreni e il monopolio della raccolta di spugne a rischio di essere messi in discussione dall’ostilità delle autorità turche e da una serie di azioni di boicottaggio. La decisione di dare il via all’impresa coloniale provoca uno sciopero generale indetto dalla Confederazione Generale del Lavoro ma con la consegna che dovrà rimanere «nei confini della più severa disciplina e nei brevi limiti di tempo deliberati dalla Confederazione… in modo che la protesta delle braccia conserte si mantenga dignitosa e lontana da ogni atto di violenza». Ma il 27 settembre lo sciopero non è ovunque limitato, a Parma e in Romagna si hanno esempi di lotta come il blocco dei treni a Langhirano dove i carabinieri sparano uccidendo due donne e due uomini. Tra il 1912 e il 1914 agitazioni sindacali e sommosse si susseguono ovunque, tra i contadini e i disoccupati del ferrarese, gli edili di Modena, i minatori dell’Elba, i metallurgici di Piombino, Terni e Milano, i cavatori della zona di Carrara, gli operai di Torino, i braccianti pugliesi, i portuali di diverse città. Ci sono scontri mortali in Sicilia, nel Lazio e in provincia di Parma. La situazione è incandescente, le politiche riformiste avevano fallito e la crisi economica spingeva verso una volontà rivoluzionaria. In quel periodo due casi colpiscono l’opinione pubblica: quello del soldato anarchico bolognese Augusto Masetti, rinchiuso in un manicomio per aver sparato, ferendolo, al colonnello Stroppa mentre incitava i soldati in partenza verso la guerra colonialista in Libia e quello del soldato milanese Antonio Moroni torturato in una delle famigerate Compagnie “rieducazionali” a causa delle sue idee antimilitariste. I sindacati e i socialisti cercano di indebolire il movimento soffocando le reazioni ad uccisioni di lavoratori e blandendo gli animi attraverso l’oratoria dei propri dirigenti.
È in questo clima che il 7 giugno 1914 viene convocato ad Ancona un comizio anti-militarista contro la guerra, e per la liberazione di Moroni e Masetti, a Villa Rossa con relatori Nenni per i repubblicani, Pellizza per i sindacalisti, Malatesta per gli anarchici e Marinelli per i giovani repubblicani. Alla fine del comizio le forze dell’ordine attaccano temendo che i partecipanti vogliano dirigersi verso il centro. I compagni rispondono con lancio di sassi, ci saranno tre morti. La risposta è immediata, la popolazione scende nelle strade tenendo la città per i successivi sette giorni, mentre la Camera del Lavoro proclamerà solo il giorno dopo uno sciopero generale già spontaneamente in atto, in una situazione ormai di potenziale insurrezione. Un delegato di pubblica sicurezza viene ferito, l’anarchico Cecili, fermato dalla polizia, viene liberato dalla popolazione insorta. Malatesta invita all’insurrezione mentre il repubblicano Pacetti propone un’interpellanza al Parlamento. La polizia, che presidia la stazione ferroviaria, viene attaccata da gruppi di operai e costretta a ritirarsi, altri dimostranti intanto attaccano e svaligiano negozi di armi. L’indomani in 30 mila seguono i feretri. Il prefetto passa i poteri al Comando di Corpo d’Armata che però è costretto dalla pressione degli operai armati a ritirare i carabinieri nelle caserme. Si istituisce un Comando Rivoluzionario cittadino formato da esponenti dei partiti popolari, si bruciano i posti del dazio, si interrompono le comunicazioni ferroviarie, telefoniche e telegrafiche, si parla già di riorganizzare su nuove basi la vita cittadina mentre si propaga in tutta Italia la notizia di un’insurrezione scoppiata ad Ancona. Le masse scendono in lotta scavalcando dirigenti e direttive in uno sciopero generale che viene attuato in città grandi e piccoli centri dalla Liguria alle Marche, dall’Umbria alla Calabria, dalla Sicilia alla Lombardia, dalla Toscana all’Emilia. A Torino ci sono scontri in strada con due operai caduti, l’autorità di polizia evita lo scontro perché la collera popolare è al colmo ma arresta centinaia di persone. A Parma il 9 giugno i lavoratori sfilano per la città e invadono la stazione ferroviaria, la rabbia è talmente forte che truppe e polizia sono consegnate in caserma e appaiono solo la notte per presidiare la ferrovia. Si erigono barricate nell’Oltretorrente dove un giovane muore. A Venezia il 9 giugno lo sciopero generale vede la partecipazione di tutti i lavoratori con comizi e scontri. A Genova lo sciopero è totale con lotte di strada tra lavoratori e forza pubblica. A Reggio Emilia per giorni non partono e non arrivano treni. A Milano l’esercito tenta di presidiare le strade ma si scontra con gli operai. Il 10 giugno tra Masocco e Rho vengono ostruiti i binari della ferrovia e divelte le rotaie, ci saranno 300 arresti. A Napoli durante scontri alla stazione un facchino resta ucciso. Muoiono per mano della polizia lavoratori a Fabriano e a Bari. A Firenze, dove la polizia spara e uccide un giovane, si alzano barricate anche davanti alla Camera del Lavoro con materiale raccolto nel cantiere della Biblioteca nazionale in costruzione. A Roma avvengono numerosi scontri con la polizia già dall’8 giugno e i rivoltosi, senza direttive o nuclei organizzativi, hanno spesso la meglio sulle truppe. Nei giorni seguenti gli scontri si ripetono, il 10 giugno Piazza Colonna viene tenuta per due ore contro la truppa. Sciopero generale anche a Verona, Cremona, Palermo, Bologna, Vicenza, Pavia, Rovigo, Padova, Terni, Spoleto, Perugia, Livorno, in tutto il Piemonte e in tutta la Puglia. Questa la situazione dei primi due giorni in Italia ma è nelle Marche e in Romagna che il clima si presenta pre-insurrezionale con diverse località per sette giorni in mano alla popolazione. Ravenna è invasa e presidiata con barricate dalla popolazione e dai contadini scesi dalle campagne circostanti, il prefetto e la forza pubblica sono assediati nella Prefettura e nelle caserme, un delegato di P.S. viene ucciso. A Rimini, nel ferrarese e nel bolognese, vengono tagliate le comunicazioni per impedire l’arrivo di rinforzi, si abbattono linee telegrafiche e telefoniche, si incendiano ponti e si distruggono o si occupano le stazioni ferroviarie. Si istituiscono i “magazzini del popolo” per l’approvvigionamento della popolazione e si introducono lasciapassare dei vari comitati rivoluzionari. A Imola viene invasa e incendiata la stazione, a Castelbolognese viene occupata la stazione e vengono incendiati i vagoni merce e distrutti gli uffici telegrafici e telefonici, a Forlì la folla brucia il portone della Prefettura. A Ravenna viene assaltata e devastata la sede dell’Associazione Costituzionale. Il prefetto, bloccato nel palazzo, deve chiedere rinforzi a Forlì e a Cesena che non possono mandarli. Ad Alfonsine, presidiata dai rivoltosi armati come in altri centri vicini, viene devastato il Circolo Monarchico e incendiata la stazione ferroviarie, divelti i binari, danneggiato il ponte sul Senio, assaltata e incendiata una chiesa. A Forlì 300 tra soldati e polizia vengono accerchiati nella caserma e nella notte vengono abbattuti tutti i pali del telegrafo. A Cesena restano feriti sette lavoratori nello scontro con l’esercito. Faenza, Rimini e Pesaro sono in mano ai lavoratori e carabinieri e truppe restano asserragliati nelle caserme. In Romagna e nelle Marche si proclama la repubblica.
«Non sappiamo ancora se vinceremo, ma è certo che la rivoluzione è scoppiata e va propagandosi. La Romagna è in fiamme, in tutta la regione da Terni ad Ancona il popolo è padrone della situazione. A Roma il governo è costretto a tenersi sulle difese contro gli assalti popolari; il Quirinale è sfuggito, per ora, all’invasione della massa insorta, ma è sempre minacciato», dirà in quei giorni Errico Malatesta.
I repubblicani cercano di frenare ma la base è con gli anarchici e con la parte rivoluzionaria dei socialisti. Travolti dall’ondata di indignazione e di protesta, gli organismi che si richiamano ai lavoratori sanciscono uno sciopero generale nazionale già per altro in corso ma senza obiettivi mentre le masse si fronteggiano faccia a faccia con soldati, polizia e carabinieri e con decine di morti, centinaia di feriti e migliaia di arresti. La lotta di strada non diminuisce e comincia lo sciopero dei ferrovieri per bloccare i movimenti di truppe e agevolare invece quello degli insorti. Il momento è propizio per atti più avanzati ma, il 10 giugno alle 8.35, il governo mette a disposizione della Confederazione Generale del Lavoro una rete telegrafica per diramare la cessazione dello sciopero entro la mezzanotte. L’ordine emanato non può che produrre sbandamento e scoraggiamento «così le masse che avevano fiducia di prendere parte a un movimento generale furono disorientate; ciascuna località vide naturalmente che era impossibile resistere da sola, e il movimento cessò» (Armando Borghi). Ma l’ordine non è seguito ovunque. Per altri quattro giorni la lotta continua in moltissime località e regioni. A Firenze e a Piacenza lo sciopero prosegue con sabotaggi e minamento di ponti. A Pisa, Gaeta, Foligno, Bari, Livorno, Piombino, Sestri Ponente, Carrara, Terni, Genova, Sampierdarena, Voltri, Tortona, Voghera, Novara, Padova, Carpi, Barletta, Spoleto e Chiasso con scioperi, scontri in strada, danneggiamenti alla ferrovia, incendi di binari. A Napoli, dopo un corteo funebre di un lavoratore ucciso, la popolazione si scontra con le forze armate in Piazza Carlo III, un treno viene assaltato a sassate. Sino a notte fonda gli scontri si susseguono in tutta la città e il giorno dopo, il 12 giugno, lo sciopero continua. A Milano l’11 giugno ci sono scontri con i cavalleggeri anche di notte. Dopo il 13 giugno lo sciopero prosegue a Bologna e a Piacenza con atti di sabotaggio, binari asportati, ponti minati e stazioni incendiate. È ancora nelle Marche e in Romagna che la tensione è più alta. Ad Ancona gli insorti bruciano in piazza i giornali che hanno pubblicato l’ordine di cessare lo sciopero. Per decine di chilometri intorno a Ravenna i contadini erigono posti di blocco, in uno di questi vengono fermati e presi prigionieri il gen. Agliati, un maggiore, un capitano e un capitano di vascello ma la C.d.L. dà ordine di rilasciarli. Fra Ravenna e Bologna i contadini armati bloccano un reparto di truppa e lo fanno retrocedere. A Cesena i lavoratori presidiano la città. A Rimini vengono distrutti i casotti del dazio e disarmate le guardie, si incendia la cappella di S. Antonio e si bruciano i giornali che hanno annunciato la fine dello sciopero. Ad Alfonsine si saccheggia la chiesa, la Pretura, il Municipio e due case di notabili del luogo mentre i carabinieri rimangono assediati in caserma. La mattina dopo è ancora tutto pieno di barricate e viene assaltato e incendiato il palazzo comunale, requisite le auto e le moto dei ricchi per mantenere i collegamenti con la campagna, vengono costituiti magazzini popolari per la farina da dare ai fornai, si costituisce un “Comitato d’Azione” per i lasciapassare e vengono distrutti i liquori e dato l’ordine di distribuire vino annacquato, nel pomeriggio si requisiscono tutte le armi e si costituiscono dei gruppi armati. I lavoratori vogliono marciare su Ravenna ma il Comitato Centrale di Ravenna risponde che ormai lo sciopero è cessato. Pesaro resta per tre giorni in mano ai lavoratori, a Faenza vengono tagliati i fili del telefono e incendiati i casotti ferroviari. Il 12 giugno sbarcano ad Ancona nuove truppe ma lo sciopero terminerà solo il 15.
Non si agiva sotto direttive ma per contagio e imitazione, chi insorse lo fece con determinazione e forza ma gli interventi dei dirigenti furono devastanti. Un mese dopo inizierà la prima guerra mondiale
S.