Articolo tratto dal numero 5 della rivista anarchica “i giorni e le notti”
Postille alla tecnoscienza
Al fuoco! Al fuoco! Brucia l’università. Niente panico, il sapere è al salvo, è già altrove. Che l’università non sia mai stata fonte di sapere vero e proprio è una verità tanto ingiuriosa quanto incontestabile. Se l’accademia è sempre stato un potente mezzo di selezione umana, da qualche decennio a questa parte è unicamente il ricettacolo di una forma di conoscenza del tutto parziale e perfettamente al servizio del mondo dell’industria.
Al fuoco! I benpensanti gridano allo scandalo, perché sono ancora affezionati a quell’immagine superba dell’istituzione del sapere; allora intimano alle autorità lo zelo necessario nella ricerca degli autori del deplorevole gesto.
Al fuoco! I ricercatori urlano con le mani in mano, non tanto perché non sono più nemmeno in grado di reggere un secchio d’acqua per spegnere l’incendio, quanto per lo stupore paralizzante che li ha colti nel vedere andare in fumo in un battibaleno tutto il loro inestimabile lavoro con tutti i sofisticati marchingegni.
Chi la sa un pelo più lunga non si scompone, aggrotta le sopracciglia e con fare dimesso si accinge alla conta dei danni.
I contadini intorno giurano di non aver mai visto tante fiamme in un sol giorno e per giunta senza faville, perché non sono i libri classici a bruciare, ma solo tanta puzza di plastica e aggeggi tecnologici.
Anche altri non si scompongono più di tanto e si strappano l’un l’altro un sorriso (non è riso, ma derisione), perché non ci hanno mai capito niente di quello che lì dentro succedeva e con un ghigno blasfemo ammiccano e sembrano accennare: “te l’avevo detto”. Questi ultimi, i popolani, utilizzano da tempo un’immagine per indicare al meglio quel luogo ormai tutto bruciacchiato: la torre d’avorio, che spiega in maniera spiccia e schietta il rapporto anaffettivo tra gli uni e gli altri: lì dentro – dicono – parlano un linguaggio incomprensibile, utilizzano degli strumenti immaneggiabili, giungono a conclusioni indicibili che non destano nemmeno più la meraviglia, tanto impronunciabili suonano, e fanno tutto questo con una serietà intransigente e inoppugnabile.
Altri ancora contemplano e lieti annunciano la buona novella, che un sapere così estatico e repentino non si era mai dato, se non appunto con questa interruzione dei lavori accademici e la distruzione di quegli strumenti fautori per primi di una conoscenza in mano ai pochi.
Di fronte a questo disastroso incendio nulla vale di più che andare a sondare le sue cause più remote, tutte rintracciabili in quell’odioso lavoro che lì dentro prendeva corpo e lì fuori trovava sostegno.
Eppure ricercare parrebbe un’azione istintiva tutta umana: si può trovare qualcosa di noto oppure si può scoprire qualcosa finora ignoto; si può scoprire oppure si può inventare. Tutto parrebbe avvicinare i ricercatori alla verità con un’operazione di svelamento. Quasi la materia stesse lì nuda farsi violentare. Invece, la manipolazione invasiva della materia ritorna al ricercatore sotto forma di conoscenza per lui unicamente parziale. C’è un fraintendimento basilare per cui lo scienziato incappa nelle leggi di natura, senza modificare i fenomeni. La materia, come suggerisce il campo semantico del termine, è sostanza e disciplina, e la sostanza è anche la maniera in cui si riesce a guardare la cosa, e la disciplina è proprio quel condizionamento esterno. C’è un altro fraintendimento: che la “verità” non sia frutto di un’operazione invasiva, ma sia lì a guardarci dall’alto ed attendere di essere svelata. L’indagine intrusiva e pervasiva della materia, quella che si effettua su scale impercettibili, interviene sul mondo come riduzione segnica: non aumenta il significato del reale, ma lo diminuisce, riducendo la materia a segnali. Così, se questo tipo di conoscenza non sfiora nemmeno lontanamente il sapere, non si pongono più questioni (o nodi da sciogliere), ma solo quesiti (fattibilità, rischio, ecc.).
Ora appare chiaro: nell’era tecnoscientifica il sapere è solo a posteriori. Oggi la conoscenza si può pronunciare solo per postille, sempre ex post l’intervento della tecnoscienza. Chernobyl è una postilla della scienza nucleare. Fukushima l’ennesima postilla. La catastrofe è il riflesso dell’enorme potenza contenuta negli oggetti tecnoscientifici: magnifica e terribile, prodigiosa e tremenda. Sapere è sempre a cose già avvenute.
Tutto ciò chiaramente cadrebbe nel ridicolo se non si mettesse in evidenza il legame serrato tra il palazzo bruciato e il mondo a rotoli, cioè i legami vivi tra quella torre e il mondo in cui è piantata, cominciando con lo svelare alcune fandonie sul conto dell’accademia che circolano ripetute ormai da generazioni.
Chi infatti volesse vedere nella ricerca di base la vera Scienza, quella disinteressata, e nella ricerca applicata il sottoprodotto della scienza, quella interessata ai fini istituzionali e commerciali, si deve presto ricredere. Ci sono conoscenze generali e altre specifiche e immediatamente spendibili, quelle cioè che permettono di sviluppare i nuovi strumenti tecnologici o le nuove teorie e termini da utilizzare nel dibattito e nelle politiche istituzionali. Tuttavia senza la ricerca di base, che esplora nuovi territori, non è possibile giungere ad alcuna innovazione significativa sul mercato. Senza la ricerca generale sulle nanotecnologie non è possibile giungere alla fibra di carbonio del Boeing di Airbus. C’è poi una coincidenza sorprendente tra il ruolo del professore cattedratico e il ruolo del tecnico aziendale o istituzionale. L’uno appronta le tecnologie sotto forma di ricerca e sperimentazione, lo stesso le applica poi sotto forma di prodotti e consulenze. Il disinteresse dello scienziato è una farsa. La torre d’avorio è ben radicata sulla terra che abitiamo e ben feconda. Un’azienda d’armamenti di un certo calibro nota con attenzione e competenza che la ricerca universitaria è all’avanguardia nella formulazione teorica e nell’ideazione, ma povera di proprietà applicative; viceversa nota come le aziende dispongano di strumentazione all’avanguardia ma siano scarse in teoria. A tal proposito si auspica un’intelaiatura cooperativa, un lavoro in combutta, che metta gli uni e gli altri nelle condizioni di operare al meglio, tanto, si sa, l’interesse più alto è il medesimo. Evviva la cooperazione, evviva l’industria!
Chi ancora volesse cimentarsi nel lavoro di separazione delle ricerche avanzate con fini militari e quelle ad uso civile, dovrà presto arrendersi per l’impossibilità di venire a capo della materia. La distinzione civile/militare ha ormai sempre meno significato, tanto per un fatto sostanziale (i contenuti di entrambi i tipi di ricerca hanno sviluppi sul controllo della persona e dei gruppi), quanto per un fatto organizzativo (i campi di ricerca si concentrano attorno ad alcuni apparecchi sofisticati; prendiamo l’esempio dei satelliti: la sorveglianza satellitare civile e militare utilizza le stesse piattaforme e gli stessi laboratori di analisi dei dati, dunque gli stessi strumenti governati dai medesimi scienziati). Dov’è la differenza?
Ora, dopo tutto, gli uni arringano, difendono, proteggono e dissipano ogni dubbio, dicendo che non c’è responsabilità della scienza per le sue nefaste applicazioni; alcuni pochi altri ringhiano e serrano i denti. Ma non ha alcun senso invocare la legge marziale con un plotone d’esecuzione per ogni reggimento di scienziati, triste mimo dei metodi dei nostri oppressori. Riconosciamo invece che la distruzione è un procedimento cauto e smanioso al contempo, ma comunque da tenere nelle nostre mani.
Ora che il fumo si addensa, l’incendio ci giunge come un richiamo, e solo l’inadatto potrebbe cogliere oltre alla suggestione l’invito.
Ora che il palazzo è bruciato i bambini tornano a giocare e i grandi sopra quelle ceneri cominciano a chiedersi se la ricerca e la conoscenza non debbano essere un’esperienza collettiva che non nasconda i propri scopi e non li dia per scontati; e riflessiva, che si interroghi sempre sugli esiti cui giunge.