Tratto da Umanità Nova:
“Il patriarcato fa leva su una forma di violenza di specifica natura sessuale e che prende forma completamente nel’atto dello stupro. […] Nello stupro, le emozioni di aggressione, odio, disprezzo e il desiderio di spezzare o violare la personalità, assumono una forma appropriata alle politiche sessuali.”
Così scrive nel 1970 Kate Millet in “Sexual Politics”, portando al centro del pensiero femminista la critica al patriarcato e spostando l’analisi delle disparità sociali di genere sul piano specifico della sessualità e della sua interpretazione politica. Principio fondante della cultura patriarcale è il dominio che si esercita anche attraverso la sessualità, o meglio la sua repressione. Ne consegue che lo stupro non può essere visto come un tipo di violenza incidentale, ma politica e normalizzata. Prova ne sia che, anche dove è considerato un crimine, regolarmente viene sminuito, condonato e giustificato. Il dominio patriarcale dà una ben determinata visione della donna, dell’uomo e dei loro corpi: l’uomo forte e macho, protettore/liberatore/aggressore, la donna debole e sottomessa, indifesa/riproduttrice/vittima. Anche se è da circa cento anni che i ruoli di genere tradizionali subiscono una picconata dopo l’altra e in molti ambiti sociali le donne riescono a liberarsi dal “tradizionale” ruolo di figlia/moglie/madre, in termini nazionali e sovranazionali il corpo della donna è ancora legato all’iconografia patriottarda sul modello della Marianna Francese o della Madre Russia, che vede il corpo della donna come il corpo che deve essere a tutti i costi difeso o violato. In ogni conflitto bellico tra nazioni il corpo diventa il confine biopolitico cruciale. Il maschio sferra il proprio attacco sul corpo della donna, vero e proprio terreno di conquista. Dall’altra parte della barricata, la propaganda bellica nazionale fa della violazione del corpo femminile un oltraggio al nucleo più intimo e stabile della nazione, la famiglia, e quindi una vera e propria onta per tutta la patria. Sta allo stato, attraverso l’uomo soldato, ristabilire la sicurezza violata, in modo da poter rivendicare/rinnovare il modello di famiglia patriarcale in cui la guida è l’uomo che deve dominare e proteggere la donna. Nel corso della storia, gli stupri di guerra, in molti casi autorizzati e incoraggiati dalle gerarchie militari, si rivelano strumenti formidabili di genocidio e snazionalizzazione, dagli stupri e le violenze subite dalle donne armene durante la deportazione del popolo armeno nella guerra del 15-18, passando per la Bosnia Erzegovina dove stupro e ingravidamento furono uno degli esercizi bellici preferiti dall’esercito serbo-bosniaco per imporre la propria supremazia etnica. La donna deve difendersi anche quando arriva la pace, come testimoniano le migliaia di donne sopravvissute alla brutalità del gruppo armato Boko Haram e successivamente stuprate dai soldati che sostengono di averle liberate o le donne bosniache violentante anche dai caschi blu dell’ONU, fino ad arrivare ad Haiti, dove molte donne sono costrette a cedere i loro corpi in cambio del cibo che i “corpi di pace” dovrebbero distribuire gratuitamente. Oltre che campo di guerra e di conquista o difesa, il corpo della donna diventa terreno di gioco. S(oggetto) su cui divertirsi e da umiliare per riaffermare la propria mascolinità e, nel caso dello stupro di gruppo, il proprio spirito cameratesco.
Oggi c’è chi plaude vedendo che donne, gay, e trans stanno entrando a far parte dei ranghi militari a tutti i livelli. Gli eserciti, si dice, stanno affrontando un cambio di mentalità e questa nuova linfa variopinta innescherà una rivoluzione all’interno delle forze armate. A chi nutrisse questa vana speranza possiamo solo rispondere che questo non accadrà mai. Basti ricordare le foto della donna soldato nella prigione di Abu Ghraib. Non può avvenire perché la mentalità militare non è solo una questione di genere ma, quintessenza del regime patriarcale, si fonda sull’intimo legame tra violenza e superiorità fisica, sul disprezzo della debolezza e culto della forza, ma sopratutto sul rispetto della gerarchia e sulla cieca obbedienza agli ordini, in una parola sul dominio. La donna non può quindi sfuggire o reagire alla sottomissione perché è una caratteristica intrinseca del militarismo.
La cultura dello stupro e la sua propaganda non servono solo nei territori in guerra: anche qui, in Europa, il corpo della donna diventa strumento per la legittimazione di politiche securitarie ed imperialiste, di cui l’esercito non è che il braccio armato; ciò che viene spacciato per protezione si traduce nelle strade in criminalizzazione e repressione di tutte quelle individualità e quei gruppi che non vogliono omologarsi, considerat* dai regimi democratici troppo fuori dallo schema patriarcale.
Per tali motivi, l’esercito potrà essere “al femminile” ma non femminista e non potrà mai impedire che il corpo della donna continui ad essere utilizzato per esercitare il potere. Questo non vuol dire, come fa un certo femminismo pacifista, che bisogna porre il militarismo e la guerra in antitesi alla natura femminile che “tradizionalmente” è dedicata alla cura e al benessere degli altri e che fa della maternità la “forza vitale” in grado di sradicare il principio della forza bruta dalla politica e dalla convivenza umana. Questo atteggiamento non fa altro che perpetuare il sistema patriarcale.
Questo pacifismo al femminile, partendo anche da questi presupposti, si dichiara senza tentennamenti “non-violento”. Una posizione evidentemente elaborata a partire da una condizione di classe privilegiata, generalmente di donne bianche che vivono in Occidente, e quindi in condizioni di relativa tranquillità, che non riesce a mettersi in discussione e non tiene conto dei sistemi di potere e dei meccanismi di violenza strutturale. Ma soprattutto, il suo “passiv-ismo”, come lo ha ben definito la compagna curda Dilar Dirik, si nega ad un dibattito indispensabile per il femminismo contemporaneo sulla violenta rabbia anti-sistema e sulle forme alternative di auto-difesa. L’aprioristico rifiuto alla violenza, infatti, non riesce a distinguere qualitativamente tra militarismo statalista, colonialista, imperialista, interventista e la necessaria legittima difesa. Cosa ancor più grave lascia il monopolio della violenza allo Stato, che può criminalizzare ogni tentativo delle persone di proteggersi, etichettandole nel migliore dei casi “disturbatrici della quiete o dell’ordine pubblici” fino ad incriminarle come terroriste. Ridurre l’antimilitarismo ad una questione di violenza e non ad un sistema interconnesso di gerarchia/dominio/potere significa criminalizzare quelle esperienze femministe, come in Rojava o in Messico, che cercano di rendere le donne indipendenti mentalmente, economicamente, e anche capaci di difendersi da ogni abuso di potere. Al contrario della violenza che mira a sottomettere l’altr*, l’auto-difesa è un impegno ad esistere in maniera significativa e politicamente autonoma.
Concludendo, per sradicare la cultura patriarcale bisogna combattere ogni forma di esercito; per questo è necessario che il movimento femminista assuma l’antimilitarismo come proprio valore cardine, stimolando un intenso dibattito e programmando un’azione politica che tenga conto di questo legame. Essere antimilitariste, significa schierarsi contro ogni forma gerarchica e di dominio, significa scardinare l’immagine che la società ha della donna, significa rivendicare l’auto-determinazione e la costruzione di un mondo basato su altri sistemi possibili, che non prevedano la sopraffazione ma l’orizzontalità, il riconoscimento dell’altr*, sicuramente non fondati su una presunta identità nazionale, e che garantiscano l’auto-sostentamento attraverso il mutualismo e la responsabilità condivisa. Spezzare le catene patriarcali vuol dire distruggere le istituzioni totalitarie, a partire dagli eserciti, da tutte le “forze di sicurezza” e dalle loro prigioni, per gettare le basi di un mondo realmente inclusivo da condividere assieme senza gerarchie, senza dogmi e senza confini, in una parola anarchico.