Anarchia o catastrofe

tratto dal n.9 della rivista “I giorni e le notti”:

Negli ultimi tempi c’è stato molto dibattito sugli assetti globalmente dominanti a livello economico e sociale. Moltissimi fanno delle analogie con il periodo che ha preceduto la Prima Guerra mondiale. Ma ci troviamo davvero prima di una grande guerra? E la guerra ha mai davvero cessato di esserci? Di sicuro, se per guerra si intende uno scontro tra truppe di diverse nazioni su scala globale, si potrebbe rispondere di sì, ma le guerre avvengono quotidianamente. Come avvenivano prima della Prima Guerra mondiale e dopo la Seconda, così anche oggi. Ma c’è un’altra guerra che non è mai cessata: la guerra sociale dispiegata dai detentori dell’autorità, della ricchezza e dei mezzi di produzione contro chi in questo mondo sta in basso. Si tratta di una guerra mondiale. Come è stato detto prima dell’ultima crisi dall’affarista americano Warren Buffett (terzo uomo più ricco al mondo in quel periodo): «La guerra di classe esiste, è vero, ma questa guerra è condotta dalla mia classe, quella dei ricchi, e la stiamo vincendo».
Se in questa guerra il questore di Torino non esita a parlare di prigionieri, noi possiamo parlare di morti. Emigranti morti nel Mediterraneo, civili morti in Siria e in Libia, poveri diavoli morti ammazzati dalle pallottole della polizia nei grandi centri urbani, indigeni ammazzati dai gruppi paramilitari perché osano difendere la loro terra e il loro modo di vita, morti negli ergastoli dell’odierna schiavitù salariata, bambini morti di fame nell’epoca della produzione sfrenata di beni di consumo. La lista è inesauribile.
Come in passato, anche oggi i grandi centri decisionali tentano di disorientare i popoli facendo emergere continuamente nemici esterni e interni, che minaccerebbero la loro sicurezza e il loro modo di vita. Spostando quindi la responsabilità degli orrori di ogni giorno dal loro sistema marcio all’altro, l’altro popolo, l’altra religione e, nel nostro caso, all’anarchico “terrorista”. È una strategia che viene adottata dai governanti di ovunque, a Occidente come a Oriente. La questione quindi è come far emergere la realtà di questa situazione, così che nelle popolazioni si crei la coscienza diffusa che il loro solo nemico si colloca nelle classi delle minoranze privilegiate che compongono il potere. Come dichiarava anche il compagno Nikos Maziotis nel suo intervento all’incontro del Soccorso Rosso Internazionale a Zurigo per il centenario della Conferenza di Zimmerwald: «Se cent’anni fa, quando infuriava la Prima Guerra Mondiale, la posizione di una manciata di rivoluzionari era rovesciare la guerra imperialista in guerra civile e rivoluzione, nell’epoca odierna della crisi sistemica globale, quando il capitalismo e l’élite economica sovranazionale conducono con la scusa della crisi una violenta lotta di classe con mezzi prima di tutto finanziari, sterminando persone in massa, privandole dei beni fondamentali, con disagi, fame, malattie, declino economico, immiserimento, o lasciando loro la “libertà” di porre fine essi stessi alle loro vite, la nostra posizione oggi deve essere “guerra alla guerra dei padroni”… Se qualcosa nel nostro tempo è imperativo, è invertire il senso di marcia della guerra di classe, è rispondere al fuoco, è la rappresaglia di guerra dei poveri, degli operai, della gioventù contro i ricchi e i capitalisti. Facciamogli pagare i loro misfatti».
Ma perché possiamo sostenere questo sforzo, ritengo che una condizione di base sia l’analisi e la comprensione da parte del nostro campo della situazione più ampia che domina a livello globale. Se ci rendiamo consapevoli del carattere totalizzante della guerra dispiegata dal capitale, potremo forse prevedere le sue mosse geopolitiche ed economiche, e le conseguenze che queste possono implicare. Tuttavia in questo articolo non vorrei fare un’analisi approfondita dei fatti, ma solo una loro rassegna, come primo tentativo di apertura di un dibattito in questa direzione. Da questo lato considero fecondo sia un confronto con i segnali che si avevano tanto alla vigilia che nel corso della Prima Guerra mondiale, sia subito dopo, giacché “la storia non si ripete, ma fa rime” (Mark Twain). Guardando ai fatti, dunque, non come a una ripetizione, ma come a una situazione che si sviluppa in senso elicoidale all’interno delle cornici definite dai canoni del sistema di dominio. Nell’epoca contemporanea dello sviluppo tecnologico senza freni, del mondo unificato dell’informazione e dello spettacolo, gli eventi corrono a velocità vertiginosa, a paragone con il passato. Credo che le trasformazioni politico-sociali che hanno condotto a fatti significativi come le guerre mondiali, se a quel tempo prendevano piede in un lasso di tempo più lungo, oggi si condensano a un punto tale da cambiare tantissime variabili contemporaneamente e con estrema intensità.
Una delle differenze con il passato è che ora il sistema non tenta di affermarsi come ai suoi albori, ma di regnare universalmente in tutti gli aspetti dell’esistenza umana e a tutte le latitudini del pianeta. Se l’Ottocento – quel “secolo lungo” che si chiude con la prima guerra mondiale, secondo la periodizzazione di Hobsbawm – è stato il secolo della borghesia, allora la classe dominante non aveva ancora consolidato il proprio potere: la lotta contro l’aristocrazia e i residui del feudalesimo la spingevano a trovare nel proletariato ora un nemico, ora un alleato nell’opposizione ai vecchi privilegi. Il quadro comune in cui le due classi si incontravano, con grande vantaggio ovviamente della borghesia, era la democrazia, attraverso la cinghia di trasmissione di sindacati e partiti di sinistra. Oggi la classe dominante non ha più necessità di alleati, ma di ferventi sostenitori, gravidi del suo futuro distopico. Dopo i primi tre decenni dalla seconda guerra mondiale e le importanti rivolte a livello internazionale, con la sconfitta del movimento rivoluzionario e della guerriglia urbana degli anni ’70e ‘80, e gli ultimi tre decenni di “sviluppo e prosperità”, la classe capitalista ha finito per prevalere. Il sistema di amministrazione democratico e la creazione di un modello di vita dentro i quadri definiti dal consumismo, con l’ausilio dello spettacolo e dello sviluppo tecnologico, hanno alienato, addomesticandola, la maggior parte della popolazione mondiale. Allo stesso tempo, il controllo attraverso tecnologie avanzate, combinato con la mancanza di forti movimenti rivoluzionari, negli ultimi anni ha conferito alla classe dominante un senso di sicurezza e onnipotenza. La dittatura dei mercati si è affermata quindi come la sola organizzazione naturale della società, e con la scusa della crisi attacca di nuovo, per riprendere tutto ciò che aveva dato il secolo precedente. Gli Stati sono sotto gli ordini degli enti interstatali internazionali, con governi-fantoccio a volte eletti e a volte no, con “tecnici” designati a capi dei parlamenti nazionali, mettendo tra parentesi anche il diritto di voto in nome della salvezza del capitale, delle banche e delle multinazionali. I “diritti” del lavoro, per la conquista dei quali in passato sono caduti tanti operai, vengono aboliti. La giornata lavorativa, i contratti collettivi e i salari sono plastilina nelle mani dei capi. E tutto questo in paesi economicamente sviluppati, nei centri del capitalismo, dal momento che il cosiddetto terzo mondo non ha mai cessato di essere una colonia, e che i “diritti” sono sempre stati assenti dal suo dizionario. In questo attacco i padroni cercano anche il consenso e la cooperazione dei popoli, visto che tutto ciò verrebbe fatto per il loro bene, per la sicurezza e la conservazione del modo di vita a loro imposto.

Molto spesso, nella storia, l’azione è l’eco delle parole. Un’epoca dai molti discorsi è seguita da un’epoca di avvenimenti. Il nuovo imbarbarimento della prima metà del 20° secolo era l’eco dei discorsi dei grandi filosofi e retori della seconda metà del 19°.
Eric Hoffer

Jacques Attali, nel suo libro Breve storia del futuro (2006), ci dà un quadro dei progetti che nascono nei think tank dei centri capitalistici. Al loro interno, Attali ha un ricco curriculum da tecnocrate di alto livello: già consulente speciale dell’ex presidente francese François Mitterrand, è stato fondatore del programma europeo sulle nuove tecnologie “Eureka”, fondatore della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, principale promotore della riforma dell’istruzione superiore (nota come LMD), volta ad allineare tutti i livelli di istruzione europei. Attali canta le magnifiche sorti e progressive di un super-impero, di un momento storico di privatizzazione assoluta in cui governeranno le aziende: «Il capitale sarà finalmente liberato da tutto ciò che lo minaccia – compresi gli Stati nazionali, che gradualmente si dissolveranno». La legge dei “mercati” sarà l’unica legge mondiale riconosciuta, in un sistema di potere le cui «strutture non sono chiare, ma il cui obiettivo è globale».
 Poco tempo fa tutti credevano che dopo l’ascesa di Trump come Presidente degli Stati Uniti sarebbe stato cancellato l’accordo transatlantico TTIP, che in sostanza dà tutto il potere a delle potentissime multinazionali. Alla fine anche il ritorno del protezionismo, con la tassazione delle importazioni statunitensi di metalli e automobili dall’Europa, è stato un altro trucco per promuovere e rafforzare questo accordo. Lo stesso è successo con i rispettivi accordi con i paesi del Sud e Centro America e con il Canada. Fatti che rafforzano la previsione di un futuro distopico, in cui tutto sarà controllato da grandi gruppi di interesse privati, regolato secondo le loro disposizioni su come dovremmo vivere. Nel settore della gestione economica, i rispettivi rapporti si estendono oltre i rigidi confini degli Stati, e anche al di là delle favole nazionali “di ostilità e di guerra” tra loro. Un esempio indicativo è il finanziamento del regime turco del neosultano Erdogan da parte della banca italiana Unicredit. Accade esattamente lo stesso nel funzionamento della repressione e dell’imposizione, che fanno parte integrante dello stesso sistema. I governanti usano tutte le conoscenze storiche che hanno ottenuto dalla repressione delle lotte passate e aggiornano continuamente i loro metodi. Una volta che uno Stato non è in grado di contenere la riottosità sociale, gli altri membri della “rete” corrono in suo aiuto, partecipando al controllo degli insorti, non solo per prevenire la diffusione della rivolta nel proprio territorio sovrano, ma anche per ricavarne interessi economici e politici. La cooperazione all’arresto di combattenti, lo scambio di conoscenze tecniche specifiche e di pratiche nel settore “antiterrorismo”, la gestione comune della folla nel corso di esplosioni sociali come in Ucraina, la cooperazione degli Stati Uniti con il Messico per eliminare gli Zapatisti al fine di sfruttare i territori da loro occupati per il legname e l’estrazione di metalli, l’uso di combattenti curdi contro l’ISIS e il loro successivo abbandono alla mercè delle truppe turche, sono alcuni esempi di questa collaborazione.

Il fascino della storia e il suo insegnamento enigmatico sono che da epoca a epoca non cambia nulla, eppure tutto è diverso.
Aldous Huxley

Di importanti analogie tra la situazione attuale e il periodo precedente la Prima Guerra mondiale parla Christine Lagarde, capo del Fondo Monetario Internazionale, in un articolo nel blog del FMI, alla vigilia della riunione dei leader mondiali a Parigi per i 100 anni dalla fine della Grande Guerra, nel novembre 2018. Lagarde sottolinea come negli anni prima della Grande Guerra ci sia stato un periodo di grande progresso tecnologico e un’integrazione globale senza precedenti, con la conseguente creazione di una grande ricchezza che è stata distribuita in modo non uniforme. Nell’articolo afferma inoltre che «dopo la guerra i leader non sono stati in grado di trarre le giuste conclusioni: hanno rimesso di nuovo il guadagno a breve termine prima della prosperità a lungo termine – abbandonando il commercio, cercando di restaurare il sistema aureo e di aggirare le norme della cooperazione pacifica. È stato necessario l’orrore di una seconda guerra per trovare soluzioni sostenibili ai nostri problemi comuni. Le Nazioni Unite, la Banca Mondiale e, naturalmente, l’istituzione che io dirigo, l’FMI, sono una parte orgogliosa di questa eredità. Il sistema creato dopo la Seconda Guerra Mondiale è stato sempre concepito in modo da poter essere regolato. Dal passaggio ai tassi di cambio flessibili nel 1970, fino alla creazione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, i nostri predecessori avevano capito che la cooperazione globale deve evolvere per sopravvivere». Per dirla con Alexandre Dumas, sembra davvero quella atroce morale per la quale «è lecito violentare la storia, a patto di farle fare un bambino». Queste istituzioni transnazionali che Lagarde ci presenta come un’eredità capace di superare ogni contraddizione e difficoltà sono figlie di un sistema capitalistico che costituisce una struttura di organizzazione economica e sociale, e che si articola oggi a livello globale. Sono i principali responsabili dell’impoverimento di interi popoli fino ai limiti della fame e della sopravvivenza. Gli enti del potere formano una rete che continua a crescere e rafforzarsi. Questa rete comprende gli Stati, le banche, le multinazionali e le organizzazioni internazionali (FMI,OMC, BM). Il dominio del neo-liberismo viene presentato come un dato di fatto. I termini del gioco sono definiti da alcune superpotenze e dai grandi capitali occidentali. Un gioco in cui ognuno gioca le carte che ha in mano: tecnologia, forniture industriali, sistemi di armamento, energia. È nel commercio di queste “carte” che si gioca tutto e non nelle materie prime, poiché queste sono già sotto il controllo delle multinazionali. L’industria bellica è da sempre una delle più potenti, al punto da influenzare le economie di interi paesi e quindi determinare le loro scelte. Negli ultimi mesi abbiamo assistito alla partita a tre fra Stati Uniti, Turchia e Russia, con la Turchia che ha minacciato gli USA di acquistare dalla Russia il sistema missilistico S300 di fronte al rifiuto statunitense di adempiere all’accordo sugli aerei da combattimento.
Da decenni siamo spettatori di varie guerre in Medio Oriente e in Africa. Guerre fatte per l’energia: per il petrolio e per le tratte che seguirà il gas naturale fino ad arrivare in Occidente. Ma anche la situazione esplosiva in Venezuela non ha avuto ragioni diverse, dal momento che parliamo del secondo paese produttore di petrolio al mondo. E chi trae beneficio da tutto questo se non le grandi compagnie energetiche multinazionali? Esempio caratteristico del commercio tecnologico e delle sue ramificazioni è quanto venuto alla luce con lo scandalo dei ministri greci corrotti dalla Siemens. Miliardi di euro che lo Stato greco ha preso in prestito dalla Banca Centrale Europea sono finiti nelle casse della multinazionale tedesca – cioè dei loro stessi finanziatori – per il pagamento di equipaggiamento tecnico, che non è mai arrivato e non è mai entrato in servizio. Il popolo a sua volta è stato chiamato a pagare i debiti fatti con questa operazione, come con le altre (armi ecc).
Un altro affare globale evidente è stato l’accordo sulle armi nucleari, che si è rivelato nient’altro che un’imposizione di controllo commerciale della loro conoscenza tecnica specifica, poiché se l’Iran le avesse acquistate dagli Stati Uniti credo che non ci sarebbe stato alcun problema. Proprio in questi giorni si parla di un accordo tra l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti sull’acquisto di reattori nucleari, tra le proteste del senato USA per delle trattative sulla tecnologia nucleare con un paese musulmano (come se questo fosse un problema per il capitale odierno!) Ancora di più, il precedente accordo sulle armi nucleari è stato annullato, con l’uscita degli Stati Uniti e della Russia. L’obiettivo è quello di convalidare nuovi accordi con termini diversi relativi alla costruzione di strutture e armi nucleari, che porteranno maggiori profitti alle corrispondenti multinazionali.
In questi giri di affari globali, alcuni attori potenti si sentono fuori dal gioco. Si tratta delle nuove forze dell’Asse dei nostri giorni: Russia, Cina e Iran. La posta non è però rappresentata dalle colonie, di cui non hanno bisogno, ma da una maggiore partecipazione al gioco stesso. Nel dicembre 2018, in occasione del suo discorso annuale, il generale Nick Carter, capo dell’esercito britannico, ha sottolineato l’instabilità e l’incertezza politica e strategica in tutto l’ambiente mondiale. Si riferiva alla continua competizione e al conflitto che intensificano le differenziazioni tra le nazioni, una situazione che ricorda il primo decennio del secolo scorso: «Viviamo in un mondo multipolare di forze competitive che hanno opinioni divergenti su come il mondo deve funzionare, con valori diversi e un diverso senso dei diritti storici. Nel frattempo, il carattere della politica e della guerra si evolve rapidamente, spinto dalla diffusione dell’informazione e dal ritmo dei cambiamenti tecnologici. I nostri concorrenti sono diventati dominanti nello sfruttare i confini tra pace e guerra. Russia, Cina e Iran mettono in difficoltà la sicurezza, la stabilità e la prosperità della Gran Bretagna e del resto del mondo … E la globalizzazione stessa, che ha aperto molte opportunità, ha anche eliminato i confini che tradizionalmente hanno assicurato la nostra sicurezza – i confini tra interno ed esterno, tra virtualità e realtà, e tra Stati e non-Stati. Questo si sovrappone alla minaccia di attori non statali, come ad esempio l’ISIS che usa il terrore per minare il nostro modo di vita, cosa che si complica con la migrazione di massa che costituisce senza dubbio una minaccia all’esistenza dell’Europa e che è aggravata ancora dal populismo e dal nazionalismo … il sistema multilaterale che ha assicurato la nostra stabilità dal 1945 è minacciato. Ci troviamo in un periodo di cambiamento più diffuso, più rapido e più profondo di quanto l’umanità abbia vissuto finora, eccetto le guerre mondiali. Il periodo di cambiamento è più continuo di quello tra le due grandi guerre del secolo scorso e il suo ritmo continua a crescere. Cambiare a questo ritmo e su questa scala porta inevitabilmente all’instabilità, che richiede un approccio diverso dalla tradizionale “mentalità pacifica”. Dobbiamo ricreare l’innovazione e l’inventiva che si distinguono nelle guerre se vogliamo avere successo in un ambiente del genere». La guerra tra i vari poli sta già montando da anni. A livello economico osserviamo da un lato la fondazione della banca BRICS e gli sforzi per ampliare la sua sfera di influenza (si guardi al dialogo tra Tsipras e Putin prima del referendum in Grecia e ai ponti che Salvini cerca di lanciare con la Russia), dall’altro le continue sanzioni economiche e il blocco commerciale. A livello tecnologico, la guerra cibernetica è quotidiana e molto intensa, dimostrando che può essere applicata sia sul campo di battaglia che nella normalità civile. A livello militare, la partecipazione di tutti quanti alla guerra in Siria ci rende consapevoli dei sottili limiti che separano la pace dalla guerra. Secondo la Strategic Defence and Security Review 2010, la Gran Bretagna avrebbe dovuto ritirare tutte le sue forze di stanza sul territorio tedesco, con un piano di ritirata delle ultime unità e di chiusura delle basi per il 2019, ma secondo Carter questo piano deve essere revisionato. Dopo aver fatto emergere per prima la questione di una minaccia da Oriente, e dopo tutti gli sforzi fatti per la leadership in Europa, la Germania si trova ora nel pericolo di diventare un’altra volta la linea di demarcazione di una nuova guerra. Gli eventi in Ucraina ci hanno fornito un piccolo assaggio di ostilità all’interno dell’Europa. A Oriente, negli ultimi cinque anni, Israele sta chiedendo sempre più insistentemente agli alleati occidentali di dare inizio alla guerra contro l’Iran, e rende noto che tutto è pronto per far seguire alle parole i fatti. Gli Stati Uniti, dal canto loro, collaborano con l’Iran nella formazione di 2000 soldati in una base di loro proprietà in Albania. La combinazione tra propaganda occidentale sulla minaccia islamica e le armi nucleari in mano al governo iraniano sta creando una miscela esplosiva.
C’è poi la Cina, ovvero la sola potenza che contende agli Stati Uniti la centralità economica, se non l’ha già conquistata. In perfetto stile mandarino, con costanza e in silenzio, la Cina è riuscita ad arrivare ovunque, a investire in tutte le economie, a controllare gli scali dei porti più grandi di tutto il mondo, ad acquistare vaste aree in Africa e, soprattutto, a detenere la quota maggiore del debito pubblico degli Stati Uniti (un debito alto quasi come nel 1946, quando il governo prendeva in prestito enormi somme di denaro per la costruzione di carri armati e aerei). Se il suo livello tecnologico è alto, l’alleanza con la Russia l’ha aiutata molto in questa direzione. Nel settore commerciale, può contare su un gran numero di fabbriche nel suo territorio – comprese molte aziende occidentali – e i suoi prodotti, sebbene di qualità inferiore, stanno invadendo i mercati di tutto il mondo. In campo militare, sono emblematici il completamento della sua flotta e l’inquietante episodio nei mari del sud nel 2016, con lo sfoggio di muscoli (e l’aiuto della marina alleata russa) di fronte alla 7° flotta americana. La leadership militare cinese, adottando la dottrina secondo la quale «una nazione davvero forte deve avere un commercio internazionale eccezionale, una potente flotta mercantile per il trasporto di merci e una flotta onnipotente per proteggere le rotte di navigazione …», rivendica con forza la ridefinizione delle sue acque territoriali, garantendosi quindi le rotte per il commercio, l’energia e le materie prime. Siccome dal 2013 si è guadagnata il primo posto nel commercio mondiale e dal momento che il 90% del suo commercio è effettuato via mare, non può rimanere bloccata dietro gli Stati Uniti e i loro alleati nel Pacifico. E possiamo immaginare che la Cina sia ancora nel bel mezzo della modernizzazione militare (sono stati fatti passi importanti e la sua aviazione navale e subacquea è sempre più in grado di colpire bersagli lontano dal territorio cinese).

La storia insegna ma non ha scolari
Antonio Gramsci

Non so se gli eventi ci porteranno a una nuova grande guerra tra gruppi di interesse internazionali, sotto le mentite spoglie di conflitto nazionalista, religioso o contro il “terrorismo”. Sicuramente quanto descritto non è di buon auspicio. Se dovesse accadere, una grande guerra oscurerebbe ancora una volta la vera guerra internazionale che si svolge da secoli: quella sociale. In un contesto del genere, diventa ancora più importante per noi anarchici capire chi siamo oggi e quali sono i nostri potenziali interlocutori e alleati. Gli anarchici, negli ultimi dieci anni, stanno cercando di ricostruire un fronte di resistenza e sovversione, con l’Europa meridionale e il Sud America come epicentri. Ma le loro forze in verità sono piccole, e il movimento frammentato. Tuttavia, la diffusione di idee e pratiche sovversive, come sola voce residuale per la completa distruzione dell’organizzazione sociale esistente, li porta a una lotta frontale contro i piani dei potenti. La paura del contatto degli anarchici con i gruppi potenzialmente ribelli, con le parti della società sempre più impoverite, con gli immigrati e gli esclusi, e del contatto reciproco tra tutte queste componenti, rende il loro isolamento uno dei principali obiettivi nell’agenda dei potenti. Parole come eguaglianza, auto-organizzazione, solidarietà e attacco diretto, princìpi fondamentali della teoria e della pratica anarchiche, devono essere rimosse dal vocabolario degli oppressi o private di ogni connotazione aggressiva e sovversiva, affinché possano essere assimilate dall’esistente.
Per questo motivo assistiamo ai continui attacchi dei meccanismi repressivi a tutte le latitudini del pianeta contro il movimento anarchico, ma anche contro i solidali e chiunque osi protestare, anche se si muove nei limiti della legalità (o ne esce appena). Aumento della repressione “cruda”, aggiornamento del codice penale con sanzioni sempre più severe e ridefinizione della nozione di “terrorismo” rientrano in questa tendenza, come ci mostrano leggi che puniscono i blocchi stradali con pene pari a quelle inflitte per i fatti di Genova 2001. Con la normativa-quadro europea del 2002, in paesi come l’Italia (ma non solo), anche manifestazioni di piazza che bloccano concretamente dei progetti che distruggono l’ambiente (per fare un esempio) vengono considerate azioni “con finalità di terrorismo”. Un po’ ovunque il concetto di organizzazione a delinquere o sovversiva viene ridefinito, la partecipazione o la solidarietà al movimento anarchico viene sempre più spesso considerata sufficiente per essere arrestati come “terroristi”. Gli anarchici vengono battezzati “terroristi” in quanto anarchici, come si è visto proprio un anno fa in Grecia con il processo a Dalios, Romanòs, Michailidis, Politis e Tsakalos, condannati con pene dai 5 ai 27 anni come «terroristi individuali». Non riuscendo a dimostrare la loro appartenenza alle CCF, né l’esistenza di alcuna organizzazione, il tribunale ha accolto in pieno l’affermazione del procuratore in aula: «Sono anarchici, quindi le loro azioni sono terroristiche»!
Gli anarchici sono ora colpiti in tutto il pianeta con una repressione direttamente proporzionale all’intensità della loro resistenza. Nell’Unione Europea, c’è un preciso progetto anti-anarchico dell’Europol che, a partire dal congresso nei Paesi Bassi del 2012, incentrato in particolare sugli anarchici dell’Europa meridionale, ha portato a un rapido aumento della repressione, con decine di operazioni all’aroma di “terrorismo” in Italia, Grecia e Spagna. Nel rapporto 2017 degli euro-sbirri, viene osservato che «l’attività terroristica anarchica» si manifesta quasi esclusivamente nei suddetti Stati, e che «in Grecia e in Italia, le azioni estremiste anarchiche sono considerate l’anticamera del terrorismo, sia come terreno fertile per la radicalizzazione, sia per il reclutamento», mentre rileva inoltre che gli anarchici sostengono «i prigionieri terroristi». Anche in Russia, Svizzera, Turchia, Belgio, America del Sud e Centro America gli anarchici sono sotto attacco. Per rispondere all’ostilità sempre crescente del potere, conviene non fermarsi all’analisi della repressione, ma farsi domande di più ampio respiro relative al nostro contesto, e in particolare a quello in cui viviamo, l’Europa.
 Esiste, in questa parte di mondo, una coscienza di classe e una connessione tra gli oppressi? Gli stessi confini tra “quelli in alto” e “quelli in basso” non sono chiari, poiché la logica dell’autorità si propaga in tutte le manifestazioni delle relazioni umane. In ogni periodo storico precedente, il commercio e la circolazione dei capitali si muovevano attorno a un asse che consisteva in beni di consumo come segni di ricchezza e potere, e nei loro centri di produzione. Oggi invece la tecnologia (e soprattutto quella più avanzata, come la robotica e le bio-nanotecnolgie) è prodotta e diffusa in tutto il mondo, facendo sì che persino i più dannati della terra si sentano “connessi” a un mondo dove tutti avrebbero le stesse opportunità, a condizione di lavorare duro e non fare domande. Perché quasi tutti corrono a colmare le lacune del potere, anziché cercare di liberarsene? Dalla famiglia ai luoghi di lavoro, dai “cittadini perbene” che si sostituiscono alla polizia fino al razzismo all’interno di popoli europei che hanno alle spalle una lunga storia di emigrazione, la situazione ci appare spesso sconfortante. Decenni di repressione, di addomesticamento e di dipendenza dal sistema esistente hanno alienato le masse. L’apatia, l’atomizzazione, il gregarismo, l’estraneazione dalla natura, l’alimentazione industrializzata, la falsità tecnologica dello spettacolo, la meccanizzazione del comportamento umano, la subordinazione all’interno dei ruoli sociali, la crescente intermediazione del denaro e della tecnologia in ogni tipo di relazioni, sembrano aver avuto la meglio. Il tessuto sociale è stato ampiamente lacerato, mentre l’individuo ha assorbito l’identità del cittadino, del membro produttivo e del consumatore: delegando completamente la propria vita al sistema, pare non essere più capace nemmeno di soddisfare i suoi bisogni di base senza l’intermediazione dello Stato e del capitale. Se la crisi all’interno dell’Europa e tra le grandi potenze è un problema complicato, l’individuazione e la ricerca dei nostri complici lo è ancora di più. Da un lato, abbiamo i fedeli sostenitori delle democrazie europee e del sistema finanziario. Dall’altro gli strati impoveriti, in particolare quelli del sud, che vengono continuamente colpiti dalle violente ristrutturazioni del capitalismo e che, per quanto non credano molto alla “disponibilità” del sistema economico-politico, tuttavia non possono evitare di avanzare delle rivendicazioni. Un significativo esempio di quest’ultimo tipo è la Grecia, che negli “anni della crisi” ha visto come l’esplosione sociale, i conflitti e il fermento di idee siano stati arginati dall’elezione di Syriza, rischiando la piena assimilazione nel sistema degli slanci più generosi. Anche in un luogo dove la pacificazione sociale è stata sempre difficile, e il ricordo d’una dittatura recente, la memoria storica non è stata sufficiente per sovvertire la situazione. Tanto meno lo è in altre parti d’Europa, dove la maggioranza della popolazione sembra come sotto ipnosi. Tuttavia, l’attacco del capitale contro gli strati più bassi rappresenta un’opportunità per aprirsi e trovare complici. Per quanto riguarda i rifugiati e gli emigranti di questo periodo, trovare punti di approccio comuni è ancora più difficile. Ogni tentativo inciampa facilmente sul tema della religione, che quasi immediatamente balza in primo piano, cosa non strana dal momento che i regimi da cui provengono gli immigrati sono spesso teocratici o semi-teocratici. Inoltre, poiché la maggioranza di loro è in fuga dalle guerre, è normale che essi vengano in Europa in cerca di un futuro migliore pensando di trovarlo qui. Un ostacolo notevole è anche dalla “nostra” parte, con la logica dell’aiuto caritatevole che spesso si sovrappone e si confonde con un’autentica solidarietà, con tutta la difficoltà di distinguerli nettamente.

Come fenomeno sociale, inoltre, le emigrazioni hanno sia riattizzato le spinte conservatrici del fascismo, sia svegliato gradualmente gli istinti antifascisti e antirazzisti di alcuni settori della società, divenuti più attenti e sensibili. Questo è un punto che merita particolare attenzione da parte nostra perché, anche se in questi possiamo vedere dei potenziali complici nella lotta di classe, la storia ci ha però insegnato che la logica antifascista non si oppone al sistema se non nella sua forma più autoritaria. Ben venga un incontro quindi, ma su basi chiare e senza autoinganni. Non dimentichiamo che «l’ascesa del fascismo al potere non è risultata dai combattimenti in strada. Il proletariato italiano e tedesco è stato sconfitto molto prima sia con le pallottole che con le schede elettorali». Del movimento anarchico, se vogliamo essere lucidi e onesti con noi stessi, dobbiamo riconoscere non solo l’esiguità e la frammentazione, ma soprattutto la mancanza di un’analisi approfondita e di una strategia ben delineata. Ne consegue l’esaurimento in una dinamica di resistenza continua all’agenda dello Stato e del capitale, nella forma della mera risposta. E come potrebbe essere altrimenti, quando i punti di disaccordo sono più di quelli in cui ci troviamo d’accordo, quando le nostre azioni non hanno nessun luogo di incontro, e allora i concetti di autonomia e diversità vengono distorti? Quando aborriamo l’organizzazione e il senso di responsibilità? Così facilitiamo l’attuazione dei progetti del dominio e il lavoro della repressione. I nostri tempi ci chiamano a farci avanti un’altra volta dopo decenni, a mettere da parte le differenze micro-politiche che ci”dividono” e ritrovare la base d’un cammino comune di lotta, a ricostruire un movimento anarchico prima che finisca nei musei, esattamente ciò a cui mira la repressione dipingendoci come una “minaccia terroristica”. Ma anziché piegarci, i tentativi del potere devono riempirci di sicurezza e volontà di intraprendere il difficile percorso di costruzione e realizzazione della nostra lotta per la libertà. La conoscenza storica delle lotte dei compagni prima di noi dovrebbe insegnarci ad evitare gli stessi errori. È tempo di cercare di coordinarci collettivamente a livello di propaganda, solidarietà e azione, ma soprattutto dar vita a delle strutture di base auto-organizzate che da un lato sosterranno la creazione di situazioni di rottura, dall’altro l’autogestione della vita di tutti i giorni, permettendoci così di penetrare in ciò che rimane del tessuto sociale non come un’avanguardia, ma come una sua parte, avendo dalla nostra delle proposte per i problemi reali. Il potere infatti «non si trova più solo nelle canne dei fucili o nelle urne elettorali», ma quasi ovunque, supplendo alle mancanze e debolezze della società, come garante dei rapporti che la governano per mezzo delle istituzioni. Strutture autogestite come scuole libertarie, ambulatori e mense sociali, occupazioni e collettivi rurali dovrebbero fare parte di un disegno collettivo di propaganda e propagazione di modi libertari di organizzare la vita collettiva e le relazioni sociali, lontani da ogni logica capitalistica dell’economia, dalla produzione di valore separata e dalla commercializzazione del singolo, situazioni in cui le persone producano collettivamente i mezzi di sussistenza e diano forma ai loro modi di vivere. Così da porre quelle basi che contribuiranno a costituire un’ampia coscienza dal basso che la libertà verrà solo con l’emancipazione dalla struttura capitalistica, e dalla sua distruzione radicale. Con questa coscienza come arma, nel momento del conflitto armato, possono essere limitati i pericoli che la rivoluzione si riduca a semplice guerra e che la questione sociale si deformi in una logica di sopraffazione da parte del più forte. Se qualcosa ci hanno insegnato le rivolte finora è che l’attacco armato per il rovesciamento e la distruzione del sistema di gestione esistente richiede la creazione parallela di strutture di base adeguate. «La lotta per la creazione di luoghi e momenti di liberazione e per la presa collettiva di decisioni è ciò che rende possibile l’autonomia del movimento e si rivelerà inseparabile da misure pratiche da adottare in vista di un cambiamento di vita».
E tutto ciò, ovviamente, in una prospettiva internazionalista. Il passato ci insegna che siamo più deboli quando siamo isolati, ma ancora di più che il progetto della rivoluzione sociale è universale e a questo livello deve essere visto e organizzato. Se qualcosa fa paura all’autorità, è che sia ancora viva quella voce che anima la sua critica totale e spinge i popoli nella direzione della solidarietà internazionalista e della liberazione universale. La lotta armata “dal basso di questa terra”, e il rovesciamento di questo mondo imputridito, incarnano il suo peggiore incubo. Ma per concretizzare tutti questi grandi progetti ritengo che un primo passo sia l’inizio di una discussione seria tra noi su tutte queste questioni…

L’amleto della luna


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