Riceviamo e diffondiamo:
Un’altra storia
Esiste una storia della lotta contro il MUOS che non è mai stata raccontata. Una storia fatta di persone che qualche anno fa a Niscemi hanno respirato e cospirato insieme per scagliarsi contro la costruzione del M.U.O.S., un moderno sistema di telecomunicazioni satellitari della marina militare statunitense utilizzato per coordinare in modo capillare tutti i sistemi militari statunitensi dislocati nel globo. E’ una storia che racconta un periodo in cui la possibilità di intersecare la rabbia di ogni singolo individuo per canalizzarla verso forme di lotta e di conflitto concreti sembrava reale. Ma è anche una storia che ricorda, una volta ancora, che se non c’è una visione condivisa sulla critica all’esistente e sui diversi modi per minare gli ingranaggi che lo mantengono in vita, e se non c’è una condivisione sulla necessità e l’urgenza di orizzontalità e di autodeterminazione di ogni singola individualità all’interno di un gruppo di persone, non è possibile percorrere la stessa strada fianco a fianco. Il fine non giustifica i mezzi, se i mezzi non sono condivisi; e i mezzi sono anch’essi parte del fine. Quando una lotta introietta impietosamente le stesse dinamiche di potere “esterne” – che poi tanto esterne non sono – creando una divisione tra “buoni” e “cattivi” (dove i cattivi sono ovviamente le individualità più radicali, più libere e più avvezze ad ogni dinamica di esercizio del potere), è chiaro che non solo i metodi non sono condivisi, ma non lo è neppure il fine in sé. Quando un movimento di lotta tende a romanzare alcune azioni simboliche e autoreferenziali e chi le compie e nel contempo cerca di sotterrare quelle più radicali, dissociandosi e lasciando solo chi si trova a dover affrontare le conseguenze della repressione, hai la certezza assoluta che nulla possa più essere condiviso con certi individui e con certe dinamiche di movimento.